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PORTO, 2 MARZO 2015 – Negli ultimi tempi se ne andava in giro con un inseparabile bastone, che quasi pareva non gli servisse: serafico, pacato, e sempre sorridente, sempre lucido, attento, preparato, s'è trascinato fino ai suoi 106 anni mantenendo intatto il proprio spirito, e tutta la sua travolgente coerenza.
È difficile inquadrare una figura come Manoel De Oliveira proprio per la sua semplicità. Ha fatto del cinema la sua missione di vita, e non se n'è sottratto fino all'anno scorso, con il suo ultimo cortometraggio. È nato quando è nato il cinema, Manoel, nel lontano 1908, ma pure il cinema è nato con lui, che negli anni è riuscito a seguirne le evoluzioni, le tendenze, a far propria l'essenza della settima arte, a seguirla o anticiparla pedissequamente. Come un'ombra.
È difficile inoltre conoscere il cinema di De Oliveira, un cinema non certo alla portata di tutti, sapientemente lento, il più delle volte statico, silenzioso, sospeso; e non ha sempre ricevuto una buona distribuzione in Italia. Cominciò la sua carriera con una serie di corti e documentari, per poi approdare al cinema di finzione subito con un capolavoro, Aniki Bóbó (1942), la storia di un gruppo di ragazzini che passano le giornate tra la spiaggia dell'omonimo quartiere di Porto e a contendersi le simpatie di una ragazzina, a percepire le contraddizioni con il mondo degli adulti. Attori non professionisti, stile e sceneggiatura, lo renderebbero un caposaldo del neorealismo italiano: non è un caso che per molti tratti ricorda lo Sciuscià nostrano, che tra l'altro lo anticipa di quattro anni.
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Erano però gli anni del regime salazarista, di cui Manoel si ritrovò subito un oppositore; abbandonò il cinema per diversi anni, dedicandosi alla viticoltura nell'azienda del padre. Successivamente si recò in Germania, a studiare presso l'AGFA l'utilizzo del colore, ma non passeranno da lì molti anni a che lui possa far ritorno in patria, con la scomparsa del regime, e a riprendere una nuova e vitale attività artistica.
L'istrionico De Oliveira ha offerto tantissimo al proprio paese, in omaggi alla sua storia e cultura: gran parte della sua produzione artistica è infatti ispirata da drammaturghi e scrittori portoghesi, e dalle loro opere ha riadattato numerosissime sue sceneggiature. Il linguaggio 'piatto' del cinema di Manoel è pressoché teatrale, la telecamera resta il più delle volte fissa, quasi a rendere lo spettatore stesso telecamera, obiettivo puntato su un palcoscenico. Era come se non riuscisse a sottrarre la dimensione teatrale al cinema, nonostante lasciasse ben intendere la padronanza della macchina da presa. Emblema è senz'altro Mon Cas (1986), dove per ben quattro volte si ripete la medesima scena su di un palcoscenico – appunto –, e dove i personaggi si muovono e recitano per ben quattro volte in maniera differente ma senza modificare la trama, che appare anzi piuttosto arricchita, di volta in volta, da elementi nuovi, verbali e cinematografici, come una lunga riflessione sul linguaggio.
E il Portogallo gli deve anche la sua volontà, spesso sottolineata, della memoria di ciò che è stato lo stesso paese lusitano, nella sua gloria e nelle sue contraddizioni; il suo omaggio più sentito arriva con Cristoforo Colombo – L'Enigma (2007), dove in un impeto campanilista Manoel rivendica le origini portoghesi di Cristoforo Colombo, facendo compiere ai suoi protagonisti, dalla gioventù alla vecchiaia, un viaggio attraverso il Vecchio e il Nuovo Mondo alla ricerca delle prove delle proprie teorie (tra le tante, l'ipotesi che Colombo sia nato nella cittadina di Cuba, in Portogallo, e da qui l'omonimo nome dato alla principale isola dei Caraibi, come omaggio alla città natale). Elemento imperioso è il mare, come in altre sue pellicole, luogo indefinito dove si spezzano e si rompono i dialoghi, i personaggi si smarriscono senza mai sottrarsene, quasi a metafora del Portogallo stesso.
Ma Manoel ha saputo vestire soprattutto i panni dell'antropologo: saggio e sapiente, immenso conoscitore dell'animo umano, delle sue debolezze e delle sue ipocrisie, delle incapacità e dei limiti, rinchiudendo più volte i propri personaggi in spazi chiusi, stretti e definiti, a farli consumare l'un l'altro nelle loro brutture grottesche ma universalmente intese. Non è un caso che spesso le scenografie risultavano buie negli interni in cui si muovevano gli attori, trame e dialoghi ancora una volta come discesi dall'arte teatrale, con in più di un'occasione il freddo, il vento e la pioggia a imperversare all'esterno, come se l'Uomo di Manoel avesse l'imperativo di affrontare o la violenza del suo animo, o quella della natura. Senza via di fuga alcuna.
In quelle stesse prigioni costruite ad hoc dal nostro, l'Uomo dunque fa i conti con il proprio conformismo, con il proprio convenzionalismo: l'apice lo raggiunge con Benilde o la Vergine Madre (1975), dove la protagonista Benilde è una sonnambula e del suo stato ne approfitta il cugino Eduardo, senza che lei s'accorga di nulla. Benilde, vissuta sempre tra le quattro mura di casa in cui facevano visita solo il prete e il dottore, quando si scopre incinta pensa che quella gravidanza sia opera dello Spirito Santo. Il delirio collettivo che ne diviene, cinico e grottesco, a tratti esoterico, sferza pennellate ossessive e inquietanti sull'impotenza degli esseri umani di fronte all'ignoto, al cieco prostrarsi alla religione, dove tutti i protagonisti che man mano entrano in scena, chiamati in forza razionale come a svelare l'arcano, si ritrovano in un modo o nell'altro risucchiati dal delirio ostinato di Benilde.
È un mondo inattuale, il mondo di Manoel; ma tanto inattuale da rendersi prontamente eterno. Maestro di cinema e di vita, un filosofo di un altro tempo, attento osservatore pur fermamente saldo alla propria onestà artistica e intellettuale. Lo volle anche Wim Wenders nel suo film Lisbon Story, dove Manoel, interrogato, rispose così:
«[...] Egli non è più della Terra, ma permane in quale luogo? Esisterà davvero un luogo per i Santi? Dio esiste... L'universo è stato creato da Lui. E a chi serve l'universo? Se il genere umano... se l'umanità scomparisse, l'universo sarebbe inutile. O forse avrà una sua funzione al di là dell'esistenza degli uomini? Noi... noi vogliamo imitare Dio, perciò esistono gli artisti. Gli artisti vorrebbero ricreare il mondo, come fossero piccoli dei. E fanno una serie di... hanno un continuo ripensare sulla storia, sulla vita, su tutto quello che succede quaggiù. O su quello che la gente crede sia successo, solo perché crediamo... sì, perché alla fin fine noi crediamo nella memoria. Perché tutto è passato. E chi ci garantisce che quello che immaginiamo sia passato, sia passato realmente? A chi dovremmo chiedere? Questo mondo, questa ipotesi allora è un'illusione. La sola cosa vera è la memoria, ma la memoria è un'invenzione. In fondo, la memoria, intendo dire nel cinema, nel cinema la cinepresa può fissare un momento, ma quel momento è già passato. In fondo, quello che fa il cinema è far rivivere il fantasma di quel momento, e abbiamo la certezza che quel momento sia esistito al di fuori della pellicola? O la pellicola è la garanzia dell'esistenza di quel momento? Non lo so. O diciamo che ne so sempre meno [...]»
Foto: worldscinema.org
Dino Buonaiuto