16 marzo 1978: il rapimento di Aldo Moro e il massacro della scorta
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FIRENZE, 16 MARZO 2012- Il 16 marzo del 1978 alla Camera dei deputati era in programma il voto di fiducia al nuovo governo guidato da Giulio Andreotti. Il dibattito politico era diventato più rovente che mai negli ultimi anni, l’imponente avanzata elettorale del Partito Comunista Italiano nel 1976 aveva intaccato l’indiscusso peso politico della Democrazia Cristiana in Italia. Anche l’On. Aldo Moro era atteso a Palazzo Montecitorio.
Docente universitario di diritto penale ed esponente di spicco della Dc, l’ex Presidente del Consiglio era stato oggetto di aspre contestazioni in seguito alla sua propensione circa un possibile inserimento dei comunisti nella maggioranza, per tentare di mettere un freno alla spirale di violenza che insanguinava il paese. Un secondo “compromesso storico” (dopo quello che portò i socialisti di Nenni nel governo nel 1963) molto più rumoroso che riscontrò netti rifiuti all’interno del suo partito ma anche nel Pci. Moro aveva una scorta armata di uomini delle Forze dell’ordine come altri personaggi politici di quei tormentati anni. Un rapporto paritario con i suoi “angeli custodi”, come ha testimoniato più volte la moglie. Un profondo legame umano consolidatosi nella quotidianità e nel riconoscimento del rischio con cui quei ragazzi dovevano, sistematicamente, fare i conti. La scorta era zelante e affezionata nei confronti di Aldo Moro. Svolgevano il loro lavoro nel migliore dei modi vigilando più che su un importante e altezzoso uomo politico, su un amico.[MORE]
Quella mattina di trentaquattro anni fa un commando di terroristi tese un agguato all’On. Moro e alla sua scorta. La tecnica utilizzata fu copiata dall'organizzazione terroristica tedesca di estrema sinistra Rote Armee Fraktion, (consiste l'accerchiamento di una colonna di automobili attraverso il blocco di quella di testa, sbarrando la strada poi all’intera colonna bloccando l'auto di coda, risulta necessario parcheggiare altre auto nel punto dove si svolge l'azione terroristica, per chiudere eventuali vie di fuga laterali). Alcuni passanti sostennero che una donna armata, coinvolta nell’agguato, urlò loro di allontanarsi evidenziando un forte accento tedesco, da qui l’ipotesi, mai provata, di un possibile ruolo nell’operazione della Raf.
Alle 8:45 il gruppo di terroristi, che indossavano uniformi da avieri civili ed era composto in tutto da undici persone (sebbene il numero preciso del commando sia stato messo più volte in discussione) si dispose all'estremità di via Fani, in discesa nel quartiere Trionfale, all'incrocio con via Stresa. La colonna della scorta era composta dalla Fiat 130 blu, su cui viaggiava Moro e alla cui guida vi era l'appuntato Domenico Ricci e, seduto accanto a lui, il fidatissimo maresciallo Oreste Leonardi, capo scorta, seguita da un'Alfetta bianca, con a bordo gli altri uomini che componevano la scorta: il vice brigadiere Francesco Zizzi e gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Poco prima delle 9.00 la scorta e Moro partirono dall’abitazione di quest’ultimo per recarsi alla Camera dei deputati. Le due vetture imboccarono dal basso via Fani, poco distante dalla casa del politico democristiano. Poi il blitz terroristico. Minuti concitati in cui le cinque guardie del corpo vennero barbaramente trucidate e Aldo Moro rapito. L’auto con a bordo l’esponente politico della Dc, tentò disperatamente di aprirsi in un varco, ma invano. Le due vetture furono bloccate (emulando la tecnica terroristica della Raf già citata), e dalle siepi lungo la strada sbucarono altri quattro terroristi che aprirono il fuoco sulla scorta. Solo Iozzino ebbe il tempo di sparare due colpi ma fu freddato alle spalle. Un massacro agghiacciante. Gli attentatori esplosero complessivamente 91 colpi, 45 dei quali risultarono fatali per gli uomini della scorta, e 49 di questi vennero sparati, da una medesima arma, 22 da una seconda arma dello stesso modello (entrambe erano delle pistole mitragliatrici F.N.A-B Mod.1943) ed i restanti 20 dalle altre 4 armi (tra le quali vi era una Beretta M12). Una donna sentì Aldo Moro rivolgersi ai suoi rapitori, mentre veniva sequestrato « Mi lascino andare! Cosa vogliono da me?».
La terribile notizia della strage si diffuse velocemente in tutta la nazione. Molte attività quotidiane furono spontaneamente sospese: a Roma i negozi abbassarono le saracinesche, in tutte le scuole d'Italia gli studenti abbandonarono le aule scolastiche, mentre le trasmissioni televisive e radiofoniche furono interrotte dall’edizione straordinaria dei notiziari, diventata il triste simbolo “mediatico” degli anni di piombo. Circa quarantotto ore dopo le Brigate Rosse rivendicarono il massacro della scorta e il rapimento di Moro attraverso il primo dei nove comunicati che saranno scritti « Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano [...] la controrivoluzione imperialista [...] ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste. ».
Seguirono i cinquantacinque giorni di prigionia, la ricerca del covo dei terroristi, i comunicati delle Br e le lettere di Moro. Lo Stato optò, tra ponderate scelte politiche e strazianti motivazioni umane, per la cosiddetta “linea della fermezza”, escludendo qualsiasi trattativa con i brigatisti. Gli italiani, indignati e scossi per l’accaduto, sperarono sino all’ultimo nel rilascio. Poi il tragico epilogo del 9 maggio quando il cadavere di Moro fu rinvenuto nel bagagliaio della Renault 4 rossa in via Caetani.
Negli anni successivi gli inquirenti riuscirono a ricostruire il quadro del commando brigatista, catturando i responsabili del rapimento e dell’omicidio di Moro nonché del massacro della scorta. I processi che ne conseguirono inflissero vari ergastoli e pesanti condanne che riguardarono in particolare Mario Moretti (capo della colonna romana delle Br), Raffaele Fiore, Germano Maccari, Valerio Morucci, Bruno Seghetti e Anna Laura Braghetti.
Dal rapimento di Moro fino alla lunga stagione dei processi passando per le indagini, furono pochi i punti chiari della vicenda. In molti sostennero la “pista americana” (con un oscuro coinvolgimento della Cia), altri la “pista sovietica”(attraverso un ruolo attivo di agenti del Kgb) o, addirittura, una possibile infiltrazione israeliana all’interno delle Brigate Rosse. Aspetti controversi emersero in più circostanze. Mafia, loggia massonica P2 e servizi segreti “deviati” furono chiamati in causa, a vario titolo, negli anni seguenti. C’è poi la storia del giornalista Carmine Pecorelli ucciso a colpi d’arma da fuoco il 20 marzo 1979 . Nel 1992 il pentito di mafia Tommaso Buscetta rivelò che l'omicidio fu eseguito da Cosa Nostra, con l’appoggio della famigerata banda della Magliana, per "fare un favore ad Andreotti", angustiato per alcune informazioni sul caso Moro: Pecorelli avrebbe ricevuto dal generale Dalla Chiesa copia degli originali delle lettere di Aldo Moro che contenevano pesanti accuse nei confronti di Giulio Andreotti, e vi avrebbe fatto riferimento in alcuni articoli pubblicati sul giornale “ Osservatore politico”.
Ombre inquietanti che vanno a infittire il buio di uno degli episodi più gravi e drammatici degli anni di piombo.
Davide Scaglione
(Proponiamo l'edizione straordinaria del Tg 1 del 16 marzo 1978)