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CHICAGO - Secondo Fao ed Ocse - lo guardavamo ieri nella prima parte di questo articolo - nel decennio 2011-2020 i prezzi delle materie prime del comparto agricolo sono destinati a subire delle vere e proprie impennate. I fattori che incideranno sul "boom" sono, naturalmente, molteplici. Gli aspetti finanziari, ancora una volta, giocano però un ruolo fondamentale. [MORE]
Partiamo, anzi ri-partiamo, dai luoghi simbolo. Ieri siamo partiti dal campo profughi di Dadaab, in Kenya, dove guerre, siccità e fame hanno creato negli anni il più grande campo profughi del mondo, in qualche modo un "simbolo" di come l'Occidente ha trattato, nel corso del tempo, il continente africano ed i paesi poveri in generale. Dal Kenya dei campi profughi, invece, ci spostiamo agli Stati Uniti - a Chicago e New York per la precisione -città che ospitano la borsa merci delle materie prime sulle quali si stabilisce oggi il prezzo a cui un determinato bene – ad esempio cereali, grano, riso – dovrà essere venduto in tutto il mondo domani.
Gli strumenti finanziari con i quali queste decisioni vengono prese sono chiamati “futures”, esattamente come quelli di cui ci parlano i giornalisti economici alla fine del telegiornale, quando ci raccontano se il titolo di questa o quella società quotata è andato bene o male. Spostamento da un tipo di coltivazione “alimentare” a quella per biocarburanti e cambiamenti climatici sono gli altri due fattori che concorrono a definire il prezzo.
Funziona così: le parti interessate – cioè produttori e primi compratori, come le grandi industrie alimentari – stipulano un contratto “future”, in cui cioè viene fissato il prezzo futuro di un bene, al fine di evitare imprevisti come crolli del raccolto o, al contrario, un raccolto troppo abbondante rispetto a quello che si era previsto. Il contratto – che è poi uno strumento finanziario – ha, quindi, l'unica funzione di assicurare le parti rendendo stabile il mercato (in gergo “hedging”).
Nel 1991, però, è stata realizzata una piccola “rivoluzione” che ha in pratica aperto il mercato non solo a quei soggetti – chiamiamoli, per comodità, “compratore” e “venditore” - direttamente interessati dalla compravendita e dai suoi effetti, ma anche a soggetti che investono in quei mercati con l'unico scopo di guadagnare quanto più possibile. Commodity Index Funds, si chiamano. Naturalmente a chi detiene questi fondi interessa poco il contadino africano o turkmeno, così come interessa poco a che prezzo verrà comprata la farina per portare il pane nei nostri supermercati. L'importante è il profitto. È facile capire, a questo punto, quanto questi fondi siano attivi sui mercati nei quali sono presenti, drogandoli e chiamando a raccolta altri speculatori.
Ad introdurre questa modifica, vent'anni fa, è stata Goldman Sachs uno dei tre giganti – gli altri due sono Morgan Stanley e Barklays Capitals - del mercato.
Secondo la Commodity futures trading commission – l'authority americana competente in materia – nel giugno 1996 le contrattazioni alla borsa di Chicago erano composte per l'88 per cento da futures, lasciando solo il dodici per cento alla speculazione. Nel giugno scorso la quantità lasciata alla speculazione è invece balzata oltre il sessanta per cento. Nel 2006, la quantità di denaro investita nei titoli derivati legati al queste materie era di 65 miliardi di dollari, oggi si è arrivati a ben 126 miliardi. Tradotto per chi ancora non avesse capito significa che, ad oggi, il prezzo delle materie prime del campo agricolo non lo fa chi da quel prezzo ha degli effetti diretti ma coloro che hanno interesse a guadagnarci il più possibile.
Questo, però, non significa che i due agenti della compravendita non abbiano anch'essi “colpe dirette”. Può capitare, e capita sempre più spesso, che le parti possano concordare un determinato quantitativo di merce da scambiare, indipendentemente se a quel quantitativo da scambiare ci si arrivi davvero. Se, ad esempio, viene prodotto meno della quantità che è stato deciso di scambiare, la compensazione sarà in denaro. Molti di quei titoli, comunque, saranno già stati scambiati con altri titoli. Si muovono solo i titoli, ed è così che si crea una “bolla”. Qualunque ne sia il mercato.
Ci sono poi le “opzioni”, con le quali – lo dice il nome stesso – l'acquirente non compra altro che la possibilità di un acquisto futuro al prezzo che ho però deciso oggi, versando alla controparte un “premio”, così che l'eventuale aumento del prezzo futuro non incide in alcun modo sull'investimento che, su quel bene, l'acquirente ha fatto.
Last but not least gli swap, contratti stipulati attraverso la mediazione di una finanziaria i quali, data l'enorme flessibilità su tagli e durata, non vengono trattati all'interno di una Borsa ma, di volta in volta, in un sistema chiamato “Over the counter”, meno trasparente e meno vincolato. Il paradiso degli speculatori insomma.
Non bisogna però pensare che queste siano operazioni da esperti in materia o da squali dell'alta finanza. Lo scorso 6 maggio 2011, ad esempio, alla borsa di Milano sono stati registrati 12.389 contratti, per un valore complessivo di più di 160 milioni di euro, relativi agli Exchanged Traded Commodities (Etc), che permettono a chiunque, anche al “piccolo risparmiatore”, di entrare in questo “gioco”. Per stare sul mercato bastano 50 euro. I danni, però, hanno potenzialmente molti zeri in più.
Vuoi approfondire? Segui la campagna "Sulla fame non si specula"
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Andrea Intonti