La vita del Botticelli narrata da lui medesimo nel romanzo Sandro di Johannes Bramante
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Un vecchio su una panca, in un tramonto d'estate, rievoca ricordi, emozioni, rimpianti, tra riflessioni sul destino e sulla natura dell'arte. Lui è Sandro Botticelli, uno dei massimi artisti del Rinascimento italiano, e quello che leggiamo nelle quasi settecento pagine del romanzo Sandro di Johannes Bramante, è il racconto della sua vita narrato in prima persona.
Sandro, pubblicato dall'editore fiorentino Maddali e Bruni, segna l'esordio letterario in grande stile di Johannes Bramante (Roma, 1990). Attore, drammaturgo e regista teatrale, Johannes trasferisce nella scrittura del romanzo le doti geniali e le qualità già evidenziate sul palcoscenico con la trilogia Il complesso di Antigone, Alkestis 2.1 e Vertenze Politiche su una Versione Pornografica del Mito di Pasìfae.
Davanti agli occhi del lettore si dispiega il grande affresco di un luogo e di un'epoca straordinari: la Firenze di Lorenzo de' Medici. Una città, quella tardo-quattrocentesca, dove umanisti e filosofi indicano nella bellezza la via per elevare l'anima a Dio. Dove fioriscono le botteghe di grandi maestri, da Filippo Lippi ad Andrea del Verrocchio, da Antonio Pollaiolo a Domenico Ghirlandaio e altri. E dove magnati, banchieri e mercanti fanno a gara per accaparrarsi le loro opere.
È in questo ambiente stimolante che il giovane Sandro di Mariano Filipepi, detto il Botticello, muove i primi passi. Con un accuratissimo lavoro di ricostruzione storica, Bramante racconta, per voce del grande pittore, gli umili inizi come battiloro nel laboratorio del fratello, l'apprendistato nella bottega di Filippo Lippi, le prime commissioni e i rapporti con la corte medicea che faranno di lui uno dei pittori più apprezzati e richiesti dall'aristocrazia fiorentina. E anche le passioni umane, gli amori omosessuali, l'ambizione, il carattere malinconico e riflessivo, le gelosie e le invidie dei pittori rivali, i dubbi e le incertezze sulla via da seguire, la ricerca di un equilibrio tra l'esigenza di soddisfare il gusto dei committenti e l'indipendenza dell'espressione artistica, il tormento della perfezione, l'influsso neoplatonico di Marsilio Ficino, la convinzione del valore civilizzatore della bellezza, la genesi dei grandi capolavori.
L'autore ci porta, insieme a Botticelli, sui ponteggi dell'abside del duomo di Spoleto, sotto le volte maestose della cappella Sistina, nelle operose botteghe fiorentine, nelle stanze ingombre di cavalletti, tavole, fogli, pennelli, collante e mortai per pestare i pigmenti, per le strade di Firenze, ma anche nelle raffinate ville di campagna e nelle sale maestose dei palazzi nobiliari. Ci fa incontrare papa Sisto IV, il magistrato Tommaso Soderini, Simonetta Vespucci, i maggiori pittori contemporanei, ma anche Leonardo da Vinci e il giovane Michelangelo.
Tuttavia, sotto la superficie di quella che fu la nuova Atene, si agitano le oscure passioni di uomini politici, la bramosia di potere, le alleanze, gli intrighi, le congiure, le vendette, i tradimenti, gli assassinii. Gli artisti, che ne siano consapevoli o no, hanno il potere di dare un corpo e un volto a Dio, alla Madonna e ai santi, hanno il dono di tradurre in immagini concrete gli astratti concetti. Per questo i governanti li tengono avvinti con la forza del ricatto o con le lusinghe della fama e della ricchezza. E si servono del loro potere comunicativo come Instrumentum regni. Per finalità di propaganda nella politica interna o per estendere le alleanze all'esterno.
Così, la mano che ha dipinto la Venere non può sottrarsi all'infame compito di ritrarre i cadaveri dei congiurati impiccati alle finestre dei palazzi. Perché lo vuole il Magnifico, a futura memoria dei suoi avversari. A ben vedere, quello di Botticelli è un lungo cammino verso la consapevolezza della eterogenesi dei fini artistici che ispira riflessioni estremamente attuali sul rapporto tra arte e politica, sull'essenza dell'arte e sulla refrattarietà della natura umana. Per questa via il romanzo può leggersi come un'allegoria del presente.
Lo scorcio del secolo XV, caratterizzato da un'involuzione autoritaria e dalle profezie apocalittiche del Savonarola, vedrà l'uscita di scena dell'artista. Amareggiato dal rogo dei suoi dipinti considerati da blasfemi nel nuovo clima di rigore moralistico e dalle persecuzioni dei sodomiti, abbandonato da tutti gli allievi, Sandro si ritira in campagna, sulle colline di Bellosguardo, per trascorrervi gli ultimi anni.
Quando il flusso di memorie giunge al termine, il sole non è ancora tramontato: «Neanche il tempo di un tramonto – commenta il vecchio sulla panca - è durato il racconto di tutta la mia vita! E forse la mia vita stessa è stata breve come un tramonto». Non così le opere, destinate invece a una gloria imperitura.