Regno Unito: nuovo scontro su Brexit e governo May sotto assedio
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LONDRA, 16 NOVEMBRE – Theresa May pare essere sempre più sola sulla strada che condurrebbe alla Brexit – quantomeno nei termini negoziati con l’UE – ma ribadisce di essere sempre più determinata a portare avanti la procedura per il recesso del suo Paese dall’Unione Europea. A distoglierla dal suo intento non sono bastate neppure le dimissioni presentate da cinque membri dell’esecutivo da lei guidato, che hanno messo seriamente a rischio il futuro politico della leader del Partito Conservatore britannico.
Il Primo Ministro aveva in settimana presentato in Consiglio una bozza, condivisa con i negoziatori europei, dell’accordo necessario per il recesso di un Paese dall’Unione ai sensi dell’art. 50 TUE, condizione essenziale per ridefinire i rapporti giuridici ed istituzionali tra i due ordinamenti. Nonostante le perplessità dei membri dell’esecutivo, Theresa May aveva forzato l’approvazione della mozione contenente il testo di quella bozza, scatenando le ire di alcuni dei principali sostenitori della procedura di recesso. A mettere in difficoltà il governo di Londra è ancora una volta la questione inerente al confine irlandese: i tecnici ed i politici europei chiedono (e potrebbero aver ottenuto) l’introduzione di un meccanismo di “backstop”, ovvero una frontiera flessibile, a maglie larghe, tra Eire ed Irlanda del Nord, in modo tale da consentire a quest’ultima (che fa tuttora parte del Regno Unito) di rimanere nel mercato comune europeo e nell’unione doganale, contrariamente alla posizione dei Tories e degli Unionisti nordirlandesi secondo i quali uno strumento del genere comprometterebbe l’unità del Paese.
Nonostante sia arrivato alla fine il sì del governo sul testo presentato dal Primo Ministro, l’esecutivo ha immediatamente cominciato a perdere pezzi. Il primo a lasciare il proprio incarico ed il tavolo delle trattative è stato Dominic Raab, proprio il Segretario di Stato per l’uscita dall’UE, tra i principali promotori della Brexit. Il suo addio è risultato dunque clamoroso, considerando che egli era anche capo-negoziatore per il suo Paese (dopo aver sostituito il già dimissionario David Davis), ma non è stato l’unico a lasciare, seguito a ruota dalla sua prima collaboratrice, la sottosegretaria Suella Braverman, nonché dal sottosegretario agli affari nordirlandesi Shailesh Vara e dal ministro del lavoro Esther McVey. L’ultima ad annunciare le proprie dimissioni è stata Anne-Marie Trevelyan, viceministro dell’istruzione, frantumando ulteriormente la squadra di governo e portando a 21 il computo complessivo dei ministri e sottosegretari che hanno lasciato il governo May dal suo insediamento nel 2016.
Nessuno dei dimissionari pare aver accolto di buon grado il regime normativo ipotizzato per la Nazione con capoluogo Belfast. In particolare, secondo Raab, che si è fatto portavoce dell’opinione avversa, l’introduzione di un meccanismo di backstop a tempo indeterminato consentirebbe all’Unione di mantenere un veto sulla possibilità per Londra di recedere definitivamente, ma rappresenterebbe anche una reale minaccia all’integrità del Regno Unito. L’ormai ex capo negoziatore è arrivato ad accusare velatamente il Primo Ministro di raccontare favole ai suoi colleghi, avendo tentato di convincerli che la soluzione ipotizzata nella bozza sarebbe stata migliorabile e che non si sarebbe trattato dell’accordo definitivo, ma solo di un passo avanti ulteriore per scongiurare il recesso unilaterale.
La situazione è dunque ben presto precipitata anche a Westminster, dove il dibattito parlamentare, soprattutto fra i Tories, sta assumendo toni sempre più accesi. Uno dei più rampanti “Brexiteers”, Jacob Rees-Mogg, fiero sostenitore della necessità di un divorzio unilaterale e non consensuale dall’Unione, sta tentando di prendere in mano la situazione e raccogliere intorno a sé i consensi dei Conservatori. Il 49enne deputato ha infatti accusato Theresa May di aver tradito tutte le proposte elettorali ed ha annunciato una mozione di sfiducia alla sua leadership all’interno del partito conservatore, che tra l’altro potrebbe avere successo nel giro di pochi giorni dato che già ci sarebbero i numeri per un’eventuale accoglimento (48 è il minimo di sottoscrizioni richiesto). È possibile che la proposta venga messa ai voti già martedì e la sua eventuale approvazione automaticamente costerebbe alla May anche la premiership, com’è consuetudine nel Regno Unito.
Di fronte a tale crescente rivolta politica, il capo-negoziatore europeo Michel Barnier ha invece predicato calma e razionalità. Nel corso di una conferenza stampa indetta all’Europarlamento per discutere dell’argomento, l’ex Commissario ha evidenziato che la bozza di accordo redatta di comune intesa con Londra sarebbe il frutto di un lavoro metodico e competente e che rappresenterebbe una pietra miliare del lungo negoziato, consentendo di fissare maggiori certezze a proposito degli scenari successivi alla Brexit. Barnier, dunque, allo stato dei fatti considera questa la soluzione più giusta ed equilibrata, che tiene conto al meglio delle esigenze di entrambe le parti e per questo motivo egli allontana al momento qualsiasi ipotetico piano alternativo. Peraltro, le vere prove formali che l’accordo dovrà affrontare sono quelle dei voti di approvazione nei due Parlamenti, sia in quello britannico che in quello europeo, necessari per conferire ad esso vigore ed efficacia. A questo punto, però, non è escluso che possano aprirsi anche altri scenari, soprattutto oltremanica: da un lato c’è lo spettro della “hard brexit”, che potrebbe conseguire all’attribuzione della leadership conservatrice ad un Tory ancora più radicale; da non sottovalutare, comunque, anche la probabilità che vengano indette nuove elezioni a stretto giro di posta, o quantomeno che i Laburisti riescano a portare avanti a buon fine una campagna per indire un nuovo referendum popolare sul recesso o sui termini specifici dell’accordo.
Francesco Gagliardi
Fonte immagine: news.vice.com