La Resistenza delle Donne. Partigiane combattenti per la libertà
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ROMA, 25 APRILE 2012 - «Il mio compito principale era mantenere i contatti fra le diverse formazioni della brigata e informare le bande sugli spostamenti dei tedeschi. Per assolvere questo compito facevo più di cento chilometri al giorno, in bicicletta». A parlare è la partigiana Gabriella, al secolo Tina Anselmi. Aveva diciassette anni quando scelse di diventare partigiana. Il lavoro che descrive è quello di staffetta, certamente il più diffuso tra le donne della Resistenza, quello più immediatamente identificabile con la partecipazione femminile alla guerra di Liberazione. La staffetta è spesso una giovane donna, il cui compito è quello di mantenere i contatti tra le bande, di comunicare gli spostamenti dei tedeschi e di trasportare ogni sorta di beni necessari alla guerra. Cibo, medicine, vestiti, stampa clandestina, armi e munizioni, trasportati per chilometri e chilometri, a piedi o in bicicletta, nei paesi, sulle montagne e tra le valli da queste donne che hanno scelto di stare in prima linea, sfidando ogni giorno in prima persona il rischio di essere scoperte, di essere fermate nei posti di blocco da fascisti e tedeschi, di subire violenze, di essere arrestate e di essere uccise. Senza il loro lavoro, la Resistenza armata non sarebbe stata possibile.
È quella che viene definita Resistenza civile, cioè l'apporto non armato alla guerra di Liberazione. Entrambe le modalità di combattimento sono interdipendenti e inscindibili. Come raccontato nel bel libro di Marina Addis Saba, Partigiane. Le donne della Resistenza, la Resistenza civile non fu semplice accompagnamento o supporto alla lotta armata, intendendo quest'ultima come modalità principale di lotta, ma fu il pilastro – essenziale, parimenti alla lotta armata – della Resistenza intera, del combattimento contro il fascismo e contro l'invasore tedesco. Una Resistenza civile, nella quale le donne hanno avuto ruolo di primo piano, che comincia prima della formazione delle bande partigiane, anzi, che crea i presupposti per la stessa esistenza delle bande. All'indomani dell'8 settembre, sono le donne che accolgono i giovani militari sfuggiti all'arruolamento nella Repubblica di Salò e alla deportazione, sono loro che accolgono gli sbandati e li nascondono nelle loro case, per poi cercare per loro rifugi più sicuri nelle campagne, nelle fattorie, nelle rimesse abbandonate e nelle capanne, dove provvedono a rifornirli di cibo, vestiti, medicine e armi. Sono le donne che creano la prima vera e propria forma di organizzazione partigiana, sia spontaneamente che con l'aiuto dei CLN che man mano si formano nelle città.[MORE]
Con l'avvio della lotta armata, le donne partecipano alla Resistenza in ogni modo. Sono – come si è ricordato – staffette; sono infermiere (spesso senza alcuna esperienza) nelle bande partigiane e negli ospedali, dove con la complicità di medici e suore si occupano di curare e nascondere i partigiani feriti; sono fattorine, addette all'organizzazione e alla diffusione della stampa clandestina; sono loro ad occuparsi dei morti, a ricomporre i cadaveri martoriati, a vestirli, a organizzare i funerali, ad avvisare le famiglie dei defunti; si occupano della gestione e dell'amministrazione del denaro necessario al finanziamento delle brigate e al sostentamento delle famiglie delle vittime del nazifascismo.
Ma le donne della Resistenza partecipano anche alla lotta armata. È questo un aspetto non molto discusso – se non negli ultimi anni – della presenza femminile nella guerra di Liberazione. Non sono certamente la maggioranza delle partigiane a scegliere la lotta armata, ma i casi non furono così sporadici. Quella di partecipare non solo alla Resistenza civile ma anche a quella militare è una scelta particolarmente difficile e coraggiosa - se si considera il momento storico in cui è stata compiuta – contro un atteggiamento plurisecolare che vedeva la donna relegata nella sfera privata e dopo vent'anni di dittatura fascista. Una scelta che sfidava tutti quei tabù sociali che impedivano ad una donna, specie se molto giovane, di passare giorni e notti intere con molti uomini. Una scelta dettata probabilmente dalla voglia di una partecipazione “totale” alla lotta contro il nazifascismo e, talvolta, persino da una certa consapevolezza di genere che il ventennio fascista non era riuscito a cancellare del tutto, e che ha contribuito certamente alla diffusione nelle brigate di atteggiamenti paritari. «Non sono venuta qui a cercare un innamorato – racconta una partigiana che si era finta infermiera per entrare in una brigata e aveva avuto qualche avance da parte maschile – io sono qui per combattere e rimango solo se mi date un'arma e mi mettete alla guardia e alle azioni. In più farò l'infermiera. Se siete d'accordo resto, se no me ne vado». Rimase.
La consapevolezza di genere si andava diffondendo sempre di più anche tra le donne della Resistenza civile, grazie alla formazione, per iniziativa di alcune donne dirigenti dei partiti del Cln – quindi donne con una consapevolezza politica già formata e ben precisa - dei cosiddetti GDD, Gruppi di Difesa della Donna e di assistenza ai combattenti, che si posero l'obiettivo di diffondere la Resistenza civile anche tra le donne, provenienti da tutti gli strati sociali, che fino a quel momento non avevano mai avuto una precisa coscienza politica ma consapevoli della necessità della lotta, in ogni forma, contro il nazifascismo. Questi gruppi di donne si riuniscono nelle case, nelle fabbriche, nelle chiese e mettono in piedi un'organizzazione capillare clandestina che ha lo scopo di sostenere attivamente e materialmente la Resistenza armata. Organizzano corsi di dattilografia, cucito, pronto soccorso, telegrafia, insegnano alle operaie come mettere in atto azioni di sabotaggio della produzione nelle fabbriche – un aspetto fondamentale se si considera che molte di loro lavoravano per aziende i cui prodotti erano destinati all'esercito tedesco – si occupano, insomma, di tutto ciò che può essere utile per l'organizzazione e il funzionamento dell'intero movimento di Resistenza.
Una delle definizioni più belle delle donne della Resistenza, una sorta di manifesto identitario insieme antifascista, democratico e di genere, è quella data dalle stesse donne dei GDD sul giornale clandestino Noi Donne nel gennaio 1945.
«Vogliamo che tutti sappiano chi siamo e come siamo, vogliamo che tutti sappiano che partigiani non sono soltanto i giovani che insorgono contro l'arbitrio nazi-fascista, per sottrarsi ad imposizioni di violenze e di sangue. Ma tutti combattenti per un'idea che non si è spenta, ma chiarificata maggiormente illuminata in oltre vent'anni di oppressione, di carcere politico e di emigrazione. E vogliamo che si sappia delle donne partigiane. Siamo sorelle, spose, madri, donne come tutte le donne del mondo. Noi non siamo le vivandiere di un allegro esercito di predoni e di avventurieri, ma dividiamo con loro tutti i disagi. Quando la sera ci avvolgiamo nella nostra coperta sulla paglia della nostra baita, accanto ai nostri fratelli, prima che gli occhi si chiudano nel pesante sonno della stanchezza, i nostri discorsi sono discorsi di tutta la gente libera, amante della libertà, discorsi che preparano il nostro faticoso lavoro del domani, e i nostri sogni sono quelli di tutte le donne che vogliono una vita utile e sana, sogni di un focolare caldo e accogliente, e d'un lavoro dignitoso insieme a una famiglia felice e una società di uomini liberi».
(nella foto, Vittoria "Vitto" Caula, una delle prime partigiane combattenti. Da Archivio Fiap)
Serena Casu