La provincia americana dà i brividi in "Un gelido inverno"
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Ai margini del gruppetto di film favoriti agli Oscar 2011, si relega, forse troppo socially uncorrect, un film sull’America dei “margini”: non a caso, già premiato al Sundance Festival, oltre che trionfatore al Festival di Torino e colonizzatore di “indie” (leggasi in inglese, nel senso di “circuito indipendente”),[MORE] da Berlino a Stoccolma. Si tratta di “Un gelido inverno” (Winter’s Bone), thriller livido e minimale che la regista Debra Granik ha adattato dall’omonimo romanzo di Daniel Woodrell. Lontano dal classicismo hollywoodiano (gli attori per ruoli secondari sono stati reclutati localmente), parrebbe una versione perifericamente stars and stripes dell’australiano “Animal Kingdom” di David Michod, anch’esso vincitore al Sundance (nella sezione “Film stranieri”), non meno gelido e ferino.
Missouri, sperduta zona montagnosa dell’America. Lontana dal cuore, putrida come frattaglie. La diciassettenne Ree Dolly (Jennifer Lawrence: una realtà) vive in condizioni di disagio nella fattoria di famiglia, che gestisce con olio di gomito prendendosi cura della madre catatonica e dei fratelli minori. E il padre? Una figura ectoplasmatica coinvolta nella produzione e nello spaccio di metanfetamine. Un giorno lo sceriffo del luogo avvisa Ree che il padre è uscito di prigione su cauzione, ipotecando la casa. Se non dovesse comparire all’udienza, la proprietà verrebbe confiscata. Altra prova di maturità per la giovane Ree, che dovrà mettersi sulle labili tracce del genitore sfidando l’omertà della comunità locale, scavando nei segreti di famiglia e piegando la diffidenza – incline alla violenza – di un sottobosco di reietti e loschi trafficanti. Con la tenace disperazione di un’adolescente cresciuta troppo in fretta.
Al suo secondo lungometraggio, Debra Granik si dimostra narratrice asciutta e solida, componendo un contesto cupamente autoreferenziale, valorizzato dai campi medi e lunghi con Ree nello scabro paesaggio, dalla fotografia glaciale, da un linguaggio realistico che ben dissimula i clichè, invero presenti, della detective story, se non dell’hard boiled: dai pestaggi intimidatori alle false piste, dai testimoni reticenti alle rese dei conti. Una storia di mistero, allora? Si, ma in cui il mistero conta solo come atmosfera. I dubbi restano parzialmente insoluti, le verità sepolte nel brullo altipiano d’Orzak. Lo sdipanamento dell’intreccio si dà solo come scarnificazione dei meccanismi animaleschi di sopravvivenza, nel confronto tra deboli e forti. Gli uomini della Legge non sono nemmeno i buoni, i “nostri” non arriveranno mai. Lo spettatore è dalla parte di Ree, con la sua incrollabile ostinazione di contro ad un realtà che verrebbe da dirsi “ingiusta”, se la selezione naturale conoscesse il giusto e lo sbagliato.
È sorprendente come Jennifer Lawrence – miglior attrice esordiente nel 2008 a Venezia con “The Burning Plain” – sappia riplasmare gli angelici lineamenti anglosassoni nella maschera di precoce massaia dark. Monoliticamente forte, debole al punto giusto. Mentre la sfilza dei figuranti, come usciti dalle fotografie di Walker Evans, asseconda l’aridità della storia e della natura, menzione d’onore a John Hawkes, lo zio spacciatore di Ree, versione cattivo “meno cattivo”, la cui ruvida e tardiva collaborazione con la nipote è sufficiente a far risaltare l’inclemente chiusura di tutti gli altri. Vale la pena segnalare – non molti lo faranno – l’inquietante caratterista Dale Dickey, protagonista di algide efferatezze con volto quasi streghesco. In fin dei conti, Ree le oppone un modello di “resistenza etica” che non si piega alla contaminazione sociale di un contesto di degrado, in un duetto che qualifica l’opera nel proprio senso ultimo.
La contaminazione che fa più piacere, però, è quella per cui dal Sundance (e con esso, dal circuito indipendente) con buona continuità, di anno in anno, titoli sempre più convincenti sappiano ritagliarsi spazi consistenti di visibilità. Perfino alla notte degli Oscar. Dove, forse, non arriveranno statuette per “Winter’s bone”. Ma indossare per una volta lo smoking non deve essere male.
ANTONIO MAIORINO