127 ore, 6 nomination, un attore: James Franco
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127 ore, 6 nomination, un attore: James Franco

sabato 26 febbraio, 2011

Mentre cresce l’adrenalinica attesa per la notte degli Oscar, arriva nelle sale italiane un film di adrenalina paralizzata, il cui protagonista James Franco, curiosamente, sarà anche uno dei conduttori della magica notte al Kodak Theatre di Los Angeles. Candidato meritatissimo alla statuetta quale miglior attore protagonista, benché con le speranze ridotte al lumicino di riuscire nell’impresa di sottrarla a Colin Firth,[MORE] l’attore sarà affiancato alla conduzione da Anne Hathaway. Se non altro, l’interpretazione da one man show nel film “127 ore” (127 hours) di Danny Boyle ha consentito a Franco di far mostra di quella stoffa da buon attore che dopo la gavetta dei teen movies ed il sostanziale anonimato in ruoli secondari di kolossal (Spiderman) già era apparsa con maggiore evidenza nella defilata ma carismatica interpretazione del compagno di Harvey Milk nel film di Gus Van Sant del 2008. Il trucco c’è, anzi, un maquillage registico volutamente pesante, come il cerone di certe donne che, per quanto vistosamente agghindate, non possono fare a meno di affascinare: l’altro showman è dietro la macchina da presa e si chiama Danny Boyle.

La vicenda, assai lineare, è la storia vera di Aaron Alston, già narrata dallo stesso protagonista nel libro "Between a Rock and a Hard Place". Il 28enne escursionista rimase intrappolato per 127 ore in una stretta gola, col braccio bloccato da un masso, nel 2003 durante l’esplorazione solitaria dei deserti rocciosi dello Utah. La storia, già nota soprattutto negli States, viene riplasmata da Boyle nella sincope ritmico-cromatica di un montaggio a un tempo estenuante e fluido, volutamente artato, con larghissime sottolineature musicali che evidenziano una volta di più la tangenza stilistica – sapientemente riadattata – al formato videoclip. Tanta muscolarità sensoriale non piacerà a tutti, ma a questo regista davvero bisogna riconoscere l’anticorpo innato al kitsch, che gli consente di fare tanto senza strafare.
In “127 ore” sono almeno due le circostanze che inducono a parlare di stile anziché di stilismo, di dominio espressivo anziché di feticismo tecnico.
La prima è l’alchemica intonazione della riconoscibilissima propensione visiva di Boyle al profilo del suo personaggio principe e della storia raccontata: ad Aaron Alston, James Franco riesce a dare, coerentemente con la vicenda reale, una scanzonata umanità tutta tendini che nel vibrante frame boyliano trova un habitat fisiologico.
La seconda notazione riguarda l’abilità da parte del regista di adattare alla propria cifra stilistica le diverse fasi della narrazione. Se nella prima parte split-screen e multi-screen, fotografia satura e colonna sonora invadente (A. Rahman) ben si sposano ai preparativi di Aaron per il trekking ed al suo vitalissimo atletismo, è invece sorprendente come dalla svolta infausta del crepaccio in poi Boyle sappia gestire con la medesima disinvoltura una situazione ben più statica, sbilanciata sul versante psicologico senza che ne riescano appiattite la vivacità narrativa e l’impatto visivo. La dimensione del ricordo, l’inevitabile piega introspettiva ed il tourbillon tutto mentale delle attese e delle paure, si colorano di un’indovinatissima patinatura ironica (irresistibile la lunga gag di Aaron\Franco con la videocamerina portatile) e si sostanziano di una qualità quasi epidermica del racconto: col culmine di crudezza nello stratagemma della fuga. Perfino i pensieri ed i sogni si movimentano, la macchina da presa azzarda soggettive ed inquadrature ardite, a fare da contraltare dinamico al blocco fisico del personaggio.

La performance solitaria di Franco è percorsa dalla tensione perenne di una doppia sfida al limite: quella dell’uomo alla natura e quella dell’attore all’inazione. Il risultato, di grande concentrazione espressiva, travalica il mero virtuosismo: Aaron arriva a dubitare di sé stesso ed ad individuare i propri “limiti” di ordine caratteriale, senza tuttavia rinunciare a sfidare fisicamente la roccia che lo intrappola. Alla logica della storia ed alla sua fruibilità, con la propria interpretazione il protagonista ha saputo pertanto aggiungere potenziale drammatico. Difficile che il braccio paralizzato possa valere il sorpasso alla balbuzie del Giorgio VI di Colin Firth ne “Il discorso del Re”. Ma se l’Oscar non dovesse andare all’inglese, considerata l’inspiegabile estromissione di Leonardo Di Caprio (Inception), l’unica alternativa credibile resterebbe il successo del 32enne attore di Palo Alto.
 

ANTONIO MAIORINO


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