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ISTANBUL, 13 GIUGNO 2013 - C’è un sommerso, un clamoroso non detto, alle volte, ai limiti del colpevole, che serpeggia tra le macerie di un certo tipo di informazione, quando questa si ritrova a fare i conti con eventi di portata storica, subitanei, e soprattutto dagli aspetti violenti. È il sommerso delle cose buone, relegate agli angoli delle cose non viste, o che non si son volute vedere. C’è una sorta di sadismo mediatico nell’interessarsi alla cronaca solo per gli aspetti crudeli, feroci, furiosi, spostando il baricentro degli eventi tutto da un lato soltanto, correndo il rischio – alto – di percepire le cose in maniera distorta.
In tanti, in tantissimi hanno inondato tv e giornali con video e immagini della rivolta di Istanbul. In pochi, in pochissimi ne hanno narrato la tregua. Com’era, o meglio, cos’era diventato il Gezi Parkɪ sabato scorso, con l’uscita di scena della polizia e il temporaneo cessate il fuoco? Difficile farsi un’idea, scavando tra le notizie, eppure, per due giorni, il cuore di Istanbul ha commosso gli stessi turchi, che mai avevano assistito a qualcosa di simile.
Il parco più cliccato dell’ultima settimana si presentava come una enorme Cittadella Utopica: migliaia di persone, innanzitutto, con ancora tanta voglia di riunirsi, di stare insieme, continuare a campeggiare e condividere gli ideali della protesta. Ideali concreti e per nulla eccessivi, tesi principalmente a rendere giustizia ai più recenti eventi, senza nessuna volontà di superare i limiti della protesta stessa:
Al punto numero uno rimane ovviamente il parco,
“#1: Gezi Parkɪ deve rimanere lì dov’è e così com’è”.
C’è poi una solenne richiesta di responsabilità,
“#2: il capo della polizia, il prefetto e tutti i responsabili di quanto accaduto devono dimettersi”.
Segue una richiesta, in accordo con le convenzioni europee,
“#3: l’uso delle bombe al gas e dello spray OC deve essere vietato”.
In più, due punti di natura più democratica (molte persone sono state arrestate con la sola colpa di aver postato foto su Twitter),
“#4: i giovani arrestati per gli incidenti devono essere rilasciati immediatamente”.
“#5: consentire liberamente manifestazioni e sit-in pacifici in luoghi pubblici”.
Sotto gli striscioni, quello che era un teatro di guerra fino a qualche giorno prima si era trasformato in qualcosa di incredibile: gli stessi çapulcu, i saccheggiatori, così etichettati da Erdoğan, ripulivano continuamente gli spazi, e davano vita alle più disparate iniziative culturali. Impressionante l’organizzazione: tende efficientissime allestite dai medici volontari, per chi ancora aveva bisogno di assistenza medica, con tanto di veterinari, per gli animali che non avevano voluto abbandonare i loro padroni nei giorni precedenti. In più angoli del parco e della piazza, la gente preparava continuamente da mangiare, come a un’enorme sagra, e dispensava cibo gratuitamente, ti prendeva per mano e quasi ti obbligava a mangiare con loro, o in altri punti in cui la gente, in fila, aveva la possibilità di ricevere pasta, pane e vivande in comodi vassoi. Canti e balli tradizionali in continuazione, un’aria di festa senza sosta, palchi allestiti per comizi di giorno e concerti di notte, musicisti che esorcizzavano la paura suonando tutti in tenuta antigas, come a un enorme, stravagante ballo in “maschera”.
C’erano librerie a cielo aperto, dove la gente poteva consultare testi di tutti i tipi, tutto gratuitamente. Venivano continuamente distribuite mappe del parco per indicare i punti precisi degli eventi che si sarebbero svolti. Chris Chavez, più in là, stemperava ancora di più la tensione, fornendo lezioni di yoga. In un altro angolo, spazi per bambini, dove potevano liberamente giocare e divertirsi, ma anche consultare una libreria tutta loro, o seguire corsi di tutti i tipi messi su dai volontari. Artisti, attori e personaggi noti sfilavano e solidarizzavano, con cartelli che urlavano: “Non toccate il mio cinema, non toccate la mia arte, non toccate il mio stile di vita”. E inoltre: corsi di pittura, cinema all’aperto, l’allestimento di un “Museo della Resistenza” con i cimeli raccolti, mostre fotografiche degli eventi, per non dimenticare. Ovunque gioia, condivisione, solidarietà, spontaneità.
Sugli alberi di Gezi Parkɪ, troneggiava una poesia di Neruda:
“[…]Questo è l’albero dei liberi,
l’albero terra, l’albero nube,
l’albero pane, l’albero freccia,
l’albero pugno, l’albero fuoco,
lo sommerge l’acqua tormentosa
della nostra epoca notturna.
Però il suo tronco dritto bilancia
il cerchio del suo dominio[…]”.
Il senso dell’Occupy, che da qualche anno impazza in moltissimi Paesi occidentali, dalla Spagna agli Stati Uniti, qui sembrava assumere un significato pieno, quasi a proporsi come unico vero modello.
E c’era ancora la volontà di essere halk e nient’altro. Uno studio dell’università “Bilgi” sostiene che il 53% delle persone presenti nel parco erano alla loro primissima manifestazione, e il 70% non era lì sotto un simbolo politico. L’Hurriyet, una testata nazionale, ha elogiato e sostenuto l’azione dei giovani: “Bravi ragazzi, pensavamo foste il frutto del capitalismo, e invece avete spazzato via i nostri pregiudizi”.
C’era questo e molto di più a Taksim, lo scorso fine settimana, un surrealismo degno dei migliori ideali sociali, la mera condivisione, la trasmissione, lo scambio, per il solo amore di farlo. Un’atmosfera troppo distaccata da quella realtà in cui tutti, e dico tutti, siamo abituati a dimenarci quotidianamente.
C’era questo, e c’era l’imposizione dei media, delle parole delle autorità, la potenza della minimizzazione, c’era la capacità di deviare l’opinione, affermando il contrario di tutto, con una determinazione tale da ingravidarti il germe del dubbio, continuamente.
C’era questo, e questa strategia politica, che per la sua longevità non conosce più segreti. O almeno non dovrebbe.
Dino Buonaiuto (Corrispondente dalla Turchia)
Foto: Carlo Rainone[MORE]