In caso di mancato pagamento della fattura, l’IVA va comunque versata
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COSENZA, 19 AGOSTO - In tema di delitto di omesso versamento dell’IVA, previsto e punito dall’art. 10-ter, d.lgs. n. 74/2000, l’emissione della fattura, anche se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta, sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura, né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 35193/2019, depositata il 1° agosto.
Il caso. Il Tribunale, con sentenza, condannava l’imputato alla pena di un anno di reclusione ed alle pene accessorie di cui al medesimo D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12, ritenuta la continuazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, con la sospensione condizionale della pena, per i delitti ex art. 81 cpv. c.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, perché nella sua qualità di legale rappresentante e liquidatore della società, non aveva versato entro i termini previsti per il versamento degli acconti relativi ai periodi di imposta successivi, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alle dichiarazioni annuali, presentate per gli anni 2009 e 2010, pari rispettivamente a Euro 694.356,00 ed Euro 1.086.413,00. Ai sensi dell’art. 12 bis, del citato D.Lgs., era stata peraltro disposta la confisca nei confronti della società della somma di Euro 1.780.769,00 in quanto profitto dei reati contestati. Il Tribunale, altresì, assolveva l’imputato per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, perché il fatto non sussisteva.
Avverso la sentenza di primo grado, l’imputato interponeva appello. La Corte di Appello, con sentenza, in riforma della sentenza del Tribunale, concedeva all’imputato l’ulteriore beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale del casellario giudiziale e confermava nel resto la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di Appello, l’imputato proponeva ricorso per cassazione con due motivi di doglianza. In particolare, l’imputato deduceva i vizi di violazione di legge e della motivazione, sia in relazione al principio della presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost., sia con riferimento al principio dell’onere della prova a carico dell’accusa; la Corte di appello avrebbe, altresì, erroneamente interpretato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6. Richiamando la copiosa giurisprudenza di legittimità e stante il disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, il ricorrente, facendo leva sul principio per cui ai fini della prova della colpevolezza dell’imprenditore che effettuava cessioni di beni mobili, ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, si dovesse verificare e tenere conto dell’effettiva percezione del prezzo della merce venduta e della quota parte dell’Iva, lamentava l’erronea motivazione della Corte territoriale che avrebbe desunto l’obbligo di corresponsione dell’Iva non tanto dal momento della consegna-spedizione della merce, ma quanto da quello del pagamento della stessa. Inoltre, a parere del ricorrente, i Giudici di merito avrebbero supposto in maniera del tutto apodittica che la società avesse percepito effettivamente le somme destinate al pagamento dell’Iva e che il mancato versamento delle medesime all’erario sarebbe stata una scelta imprenditoriale per fronteggiare la crisi di liquidità. In ragione di ciò, sarebbe stato del tutto illogico e mai comprovato considerare che le somme confiscate fossero il profitto dei reati contestati. Infine, contestava come non potesse attribuirsi al ricorrente un onere di prova ulteriore riguardo all’effettività dei pagamenti in questione, perché sarebbe stato compito dell’accusa provare che il mancato versamento dell’Iva derivasse da un mancato accantonamento delle somme percepite. Tale motivo veniva dichiarato manifestamente infondato. Secondo i Giudici di legittimità, doveva rilevarsi che gli importi dell’Iva non versati fossero quelli che risultano dalle dichiarazioni Iva presentate dal ricorrente quale legale rappresentante della società. È proprio dalla presentazione della dichiarazione annuale, effettuata dal ricorrente, che emergeva quanto era dovuto a titolo di imposta. Come affermato dalla sentenza Strada (Cass. Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017), ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 ter, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, era quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili. Non rilevava neanche, per ragioni di tipicità, se l’importo relativo all’Iva fosse stato effettivamente incassato. La sentenza Strada aveva, pertanto, affermato che il debito erariale non doveva risultare dai registri delle fatture emesse o dalle fatture o dalla contabilità di impresa o, ancora, dal bilancio: il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto era solo quello oggetto della dichiarazione annuale. La presentazione della dichiarazione, infatti, costituiva un presupposto necessario ai fini della consumazione del reato, tant’è che l’autore del reato doveva necessariamente rappresentarsi che l’oggetto della condotta omissiva era esattamente (ed esclusivamente) il debito dichiarato, non quello risultante aliunde. Il tema della non corrispondenza del debito dichiarato (superiore alla cd. "soglia") con quello che risultava dalla contabilità dell’impresa (in ipotesi ad essa inferiore) non aveva perciò alcuna rilevanza posto che, come già rilevato, la fattispecie, per chiara scelta legislativa, non era strutturata intorno al debito effettivo, ma solo a quello dichiarato. Le discrasie tra il debito erariale dichiarato e quello effettivo avevano il proprio terreno elettivo nei reati in materia di dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2, 3 e 4, i quali ben potevano concorrere con quello di cui all’art. 10 ter. Infine, il Supremo Collegio, ribadiva il principio affermato dalla Cassazione, Sez. III, n. 38594 del 23/01/2018, per cui, “in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo”.
Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express