"Melancholia" di Von Trier: a che ora è la fine del mondo?
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NAPOLI, 23 OTTOBRE 2011 - Per lo spettatore medio, probabilmente incline ad una leggera insofferenza, il prologo di "Melancholia" di Lars Von Trier rischia di diventare il contrario di quello che dovrebbe essere: un pugno nell'occhio anzichè una carezza dello sguardo. Lo scrive una persona che ha assistito di persona, nel 2003, alla diserzione dopo 5 minuti ed ai "buuu" degli astanti in sala alla proiezione di "Dogville". [MORE]Eppure "Melancholia", che salpa dai lidi di un'ambiziosa sinestesia rifugiata nella catarsi ovattata dell'arte, non si sviluppa come un film scostante, di boriosa art pour art. Le musiche in apertura di Wagner dal "Tristano ed Isotta", le sequenze ora metafisiche ora di astrale placidità ma - almeno in esordio - di fascinosa cripticità, le citazioni pittoriche da quelle testuali (Bruegel) a quelle d'evocazione romantica (Friedrich, Böcklin, l'Ofelia dei Preraffaelliti), tratteggiano un prologo d'impatto: tutto sta a capire se lo schianto allontana, o incuriosisce.
Certo, d'impatti questo film parla, eccome. Justine - Kirsten Dunst, giustamente premiata a Cannes - si confronta con la realtà presto scomoda del matrimonio. Troppo presto: la festa di nozze le pesa come un rituale disagiante, al quale presenzia sorridendo senza poter fare a meno di allontanarsi a più riprese, con lo sconcerto del marito e degli invitati. Titoli di coda sulla prima parte - e sul matrimonio? Le seconda parte del film è dedicata alla sorella Claire (Charlotte Gainsbourg) ed alle sue inquietudini per il possibile impatto del pianeta Melancholia con il globo terrestre, nonostante i calcoli rassicuranti del mondo scientifico e del marito astronomo. Mentre Melancholia si avvicina - ma si allontanerà? - Claire ospita Justine. Intreccio di turbative, psicodramma ed apocalissi.
"Melancholia" è un'opera di cui si potrebbe dire tanto: dal contrasto tra le tante riprese a spalla, specie nella prima parte, al grado zero di certi ralenti condensati in fotografie di saturazione raffreddata; dalla concentrazione espressiva sull'ansia complicata e diversa delle sorelle, all'irritante folla vinterberghiana che contorna questa sorta di Tennessee Williams versione Deep Impact. Ma c'è una variazione umorale che sostanzia il film, specie per lo spettatore dall'occhio vergine, che approccia l'opera di Von Trier senza aver letto recensioni e trame - e scusateci tanto! La parte dedicata a Justine, recitata dalla Dunst con giustro struggimento atarassico, produce una focalizzazione emotiva da parte dello spettatore su una vicenda psicologica e familiare. La scala "galattica" della seconda parte prende il sopravvento con una felpatura narrativa, che sembra quasi riprodurre in via diegetica l'approssimarsi graduale del pianeta: un'attesa inattesa, un dover aspettare qualcosa che dal punto di vista del rilievo narrativo - così come, nel film, da quello scientifico - doveva essere un evento di routine. Sicché lo spettatore difficilmente può sottrarsi alla strategia della tensione di Von Trier, e pare davvero incredibile che si arrivi a tanto in un film avviatosi con tutt'altra cadenza. La chiusura - ma non "spoilero", per pura bontà: troppi critici\giornalisti lo stanno facendo - ha una circolarità visiva che chiude il cerchio spirituale della trama come in una progressione ineluttabile.
La scelta di centrare la seconda parte su Claire – e la Gainsbourg è un’autentica garanzia – si rivela in tal senso indovinata. Rispetto a Justine, è lei – sposata con un figlio e responsabile dell’organizzazione della festa di matrimonio – a sembrare a lungo la più stabile, a tranquillizzare la sorella e a prendersene cura. L’erosione delle sicurezze di Claire si consuma con un’angoscia crescente che trascina lo stesso spettatore, in un climax silenzioso, in cui la minaccia diventa delirio e la natura soverchia i personaggi, così come il cosmo dell’immagine prende il sopravvento sul dramma psicologico.
Antonio Maiorino