"La Palisiada", l'Ucraina è libera (forse). Intervista al vincitore del Torino Film Festival Philip Sotnychenko
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Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, La Palisiada di Philip Sotnychenko, vincitore del Torino Film Festival 2023: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
Il braccio violento della legge non conosce nazionalità. Il conflitto tra Russia e Ucraina potrà contendere confini, ma il film vincitore del Torino Film Festival 2023, La Palisiada del regista ucraino Philip Sotnychenko, non fa sconti di nazionalismo nel raccontare come, nell’Ucraina prima e dopo l’indipendenza, attecchisse benissimo, come grano rosso sangue, un certo germe sovietico di manganellate, esecuzioni fredde, detective selvaggi (o solo rustici), interrogatori spietati e violenza latente, o patente. Fate voi: la patente della violenza, appunto, è transnazionale. E quella di Sotnychenko, cinico-ironica come da perfetto umore nero dell’Europa dell’Est, è una riuscitissima, anche se difficile, geneologia di quella violenza, se non una etnologia.
Il pretesto, vien da dire, è il racconto di un’indagine condotta – e corrotta – da un detective e uno psichiatra sull’omicidio di un collega nel 1996, alla vigilia dell’abolizione della pena di morte e in relativa “gioventù” dello stato ucraino autonomo (proclamato cinque anni prima). Vien da dire: perché questo film, da psicoanalizzare più che da recensire, si fa anche fatica a chiamarlo racconto, straperso nelle sue digressioni, nelle sue ripetizioni, nelle sue ellissi. Un film quasi burocratico, quasi l'avesse girato la Stasi. Un film statico. Che inizia con venti minuti narrativamente scollegati dal corpo dell’indagine, girati come certa realistica e inquietante filmografia rumena, camera a spalla o fissa a divagare; sconclusionata come un indie americano d’epoca, pigro e bighellone.
Qui, nel prologo sfilacciato, non c’è storia, se non quella di seguire un ragazzo che bighellona in qualche festa, tradisce – pare – la ragazza (lo s'intuisce da come accarezza il corpo tatuato di una donna con cui chiacchierava poc’anzi ad un'alcolica serata di gruppo), si snerva in una cena di famiglia e finisce così, un giorno all’improvviso, accoppato dalla stessa fidanzata, esasperata, senza che vi fosse alcun preavviso nei fatti (non) raccontati. Vent'anni dopo, sempre in Ucraina: l’indagine già detta, con un capro espiatorio trovato sommariamente, come bere un sorso di vodka. Un filo esilissimo collega le due parti del film, più concettuale che diegetico: la freddezza subitanea delle esecuzioni. Una violenza radicata, annoiata, noiosa. Difficile da digerire, La Palisiada, film tra due colpi di pistola. Ma se ha vinto il Torino Film Festival – e prima ancora, il premio FIPRESCI a Rotterdam e migliore regia a Sarajevo – varrà la pena capirne di più. Abbiamo interrogato (pacificamente) il regista Philip Sotnychenko.
LA PALISIADA : SINOSSI UFFICIALE
Ucraina, 1996. Cinque mesi prima della moratoria sulla pena di morte, due vecchi amici, un detective di polizia e uno psichiatra forense, indagano sull'omicidio di un collega. Tempo prima, entrambi erano stati innamorati della vedova della vittima. Immersi in un caso sempre più complicato e in ricordi di eventi che sembravano dimenticati, i due uomini aspirano a creare un futuro migliore in cui i loro figli dovranno vivere, ereditandone le aspirazioni irrealizzate.
LA PALISIADA: IL TRAILER
L'INTERVISTA: PHILIPS SOTNYCHENKO RACCONTA LA PALISIADA
Devo confessare che, dopo aver visto che il tuo film aveva vinto il Torino Film Festival, sono stato curioso di leggere la motivazione della giuria e di fare una piccola “rassegna stampa” delle critiche dei miei colleghi. Mi sono accorto di una cosa. Nella motivazione della giuria, si parla di La Palisiada come di un film “complesso”. Il direttore del Torino Film Festiva, Steve Della Casa, lo definisce addirittura “strano”. In alcune recensioni internazionali si parla di un film "difficile da capire". La mia conclusione: La Palisiada viene percepito come un film che disorienta lo spettatore. Era quello che intendevi fare? Che percezione hai del modo in cui è stato e sarà ancora recepito il tuo film?
Non direi che il film sia difficile da capire. Ha un'architettura un po' strana, ma questo è abbastanza comune nel cinema contemporaneo. Non volevo confondere lo spettatore, ma nemmeno fare un film con una trama chiara. In generale, mi piacciono i film in cui sembra che non stia accadendo nulla. I personaggi camminano, parlano di qualcosa. È più simile alla vita.
Il titolo La Palisiada appare soltanto venti minuti dopo l’inizio del film. Quei minuti iniziali si svolgono nell’Ucraina del presente, e culmineranno con l’omicidio inatteso di Aisel nei confronti del proprio compagno, presumibilmente per esasperazione. Il resto del film si ambienta nel 1996, pochi mesi prima che il Paese, diventato indipendente, abolisse la pena di morte. Seguiamo le indagini sull’omicidio nei confronti di un alto ufficiale: anche questa parte finisce con un’uccisione, ossia con l’esecuzione dell’incriminato, Bohdan, pressoché un povero diavolo scelto a caso. Che tipo di corto circuito hai voluto creare tra i due tempi della narrazione? Te la senti di dire che l’Ucraina di oggi, e di quei venti minuti, è figlia di quell’Ucraina del 1996?
Succede sempre che il passato influenzi il futuro. Ci deve essere una sorta di connessione, o un contraccolpo. Nel nostro film, l'inquadratura all'inizio è una sorta di eco del passato. In fase di stesura della sceneggiatura, volevamo ci fosse un elemento forte che unisse queste due parti. Si è rivelato essere lo sparo.
Durante l’interrogatorio all'imputato, la commissione incaricata della perizia psichica gli chiede: “ti ricordi il nome della regione a cui appartenevamo fino a poco fa?”. Lui ci pensa, poi risponde “CCCR” (il nome russo dell'Unione Sovietica, n.d.R.). C’è in effetti una sensazione più generale che pervade il film: ossia che l’Ucraina post-indipendenza fosse figlia, a sua volta, della cultura sovietica, che non a caso sembra esprimersi proprio nella brutalità, nella freddezza e nell’approssimazione delle indagini della polizia. È corretto affermare che il tuo film sia anche su quanto sia stato difficile per l’Ucraina “de-sovietizzarsi” in termini culturali dopo la separazione dalla Russia?
Qualcosa del genere. Ma avevamo anche un certo riferimento a una conversazione simile tra un medico e un paziente in un ospedale psichiatrico, in cui il medico faceva una domanda simile. È un interessante dialogo professionale quotidiano che sembra molto simbolico. Si tratta dell'eredità sovietica che vogliamo dimenticare, ma ci sono fattori che ce la ricordano costantemente. Ad esempio, anche solo un brindisi alle donne, ai nostri tempi può già essere percepito come sessista.
Sarebbe suggestivo raccontare La Palisiada come lo spazio che intercorre tra le due uccisioni, con i suoi fili invisibili e intricati. Ma vorrei parlare innanzitutto di come finisce il prologo, con lo sparo di Aisel. Perché hai concepito questa scena con la camera fissa? Diresti che non ci sia alcun climax della tensione, oppure che c'è, ma che è nascosto nella quiete apparente dei dialoghi?
Volevamo riprendere il presente in modo statico, come se si trattasse di una situazione stabile dopo i turbolenti e inquieti anni Novanta. Volevamo anche ottenere un certo contrasto tra l'inquadratura e il suo contenuto, in modo che lo sparo risultasse inaspettato per lo spettatore.
Salto alla parte finale del film. Dell’esecuzione di Bohdan colpisce, in parallelo alla citata uccisione da parte di Aisel, l’assenza di tensione. Con l’esecuzione, sembra quasi esserci quella che Hannah Harendt definiva banalità del male. Tutto diventa burocratico: l’ufficiale che fa posizionare Bohdan sotto la finestra, il colpo di pistola, il medico legale che controlla l’ora del decesso, l’acqua che pulisce il sangue. Sono curioso di sapere se quando hai concepito il film avevi in mente esattamente di puntare a questo finale, costruendo poi tutto il resto, oppure se i dettagli ti sono venuti in mente strada facendo.
Abbiamo lavorato a questa scena fin dall'inizio dello sviluppo del film. Abbiamo studiato le procedure di esecuzione in diversi Paesi. Abbiamo letto alcuni libri. Ci colpiva questa natura meccanicistica del togliere una vita. Questo è quanto mi ha impressionato di più: che ogni persona coinvolta in questa procedura conosca il proprio ruolo e svolga una determinata funzione. Non ci sono emozioni. È solo un lavoro.
So che hai già risposto in passato a questa domanda, ma vorrei chiederti un chiarimento rispetto al titolo La Palisiada. Sasha, nella commissione d'indagine, lo definisce una figura del discorso, precisamente, “un discorso ridondante”. Ne parla nel suo rapporto su Bohdan, come a insinuare che qualcuno glielo abbia fatto memorizzare. Hai scelto questo titolo per condurre in qualche modo al senso del film, oppure è un tipico “capriccio d’artista”, ossia, l’intuizione di puro istinto che fosse un titolo appropriato?
È stato istintivo, ma era nella sceneggiatura. All'inizio, questa parola aveva un ruolo più significativo nel film. Con questo termine, uno dei medici della commissione voleva aiutare l'imputato a evitare la pena di morte, ma abbiamo deciso di non insistere e di lasciare solo un accenno scherzoso a questo tentativo del medico di salvare Bohdan. Ci piaceva molto anche la componente fonetica della parola. Dividendola in un articolo col suo sostantivo, La-Palisiada, abbiamo ottenuto un neologismo che si riferisce alla parola "polizia". Come se si trattasse di una sorta di saga poliziesca.
Ti voglio fare una domanda proprio sulle ridondanze del film, cioè sugli elementi che compaiono più volte ripetuti in maniera simile. Due su tutti: la scena della cattura dei sospetti, inginocchiati a terra, che viene mostrata in presa diretta ma anche rivista allo schermo; le scene di re-enactement dell’omicidio dell’ufficiale con l’uso del manichino. Perché queste ridondanze?
Questa è quella che io chiamo la palisiada. Volevo fare un anti-detective movie. Volevo che i personaggi camminassero nello stesso posto per tutto il film. Il film ha molti ritornelli e ripetizioni. È anche il nostro omaggio a Kira Muratova, che mi ha colpito per il suo linguaggio cinematografico.
Perché hai scelto che la testimone dell’omicidio dell’ufficiale fosse muta e ci fossero snervanti sedute di traduzione e interpretariato? Insieme alle scene di re-enactement, ossia di simulazione dell'omicidio da parte della polizia, mi ha quasi dato la sensazione di quell’impossibilità di ricostruire un’immagine veritiera che viene da film come Blow-up di Antonioni.
L'idea di rendere il testimone muto per rendere più difficile ai personaggi la comprensione della situazione mi è venuta mentre cercavo le location. Questa decisione rende le circostanze ancora più confuse.
La Palisiada non ha una narrazione lineare. Questo non solo per lo spostamento temporale tra la prima e la seconda parte, ma anche perché la narrazione è spesso interrotta o assente per lasciare spazio a quella che definirei un'insistenza sul contesto. Mi riferisco a scene televisive - il discorso di Luzhkov, una partita di calcio della Dynamo Kyiv - o a passaggi a livello che costringono gli ambulanti a ripulire le loro baracche. Quale contesto voleva raccontare con questi inserti?
Questi sono solo attributi del tempo che abbiamo messo sullo schermo. Le trasmissioni televisive del film sono contenuti reali di quel periodo. (N.d.R: a parere di chi scrive, una certa laconicità su questa risposta potrebbe anche essere connessa alla comprensibile cautela dettata dal riferimento politico a Luzhkov, politico russo del partito “Russia Unita” e sindaco di Mosca, morto nel 2019, che nel film fa un discorso allusivo all’egemonia della Russia sull’Ucraina)
Che rapporto hai con i cosiddetti “generi” e tutto ciò che comportano nella realizzazione e nell’analisi di un film? Per La Palisiada è evidente un riferimento al noir nella realizzazione, così come in fase critico ho letto spesso dell’uso della parola “commedia”, ovviamente dark.
Mi piace molto flirtare con certi generi. Mi sembra che il genere non possa uccidere lo stile dell'autore, a meno che non sia il regista stesso a farlo.
Esiste un legame tra il tuo stile quasi documentaristico e il tuo lavoro con attori non professionisti?
C’è e lo vedo chiaramente. Ma non si tratta di un dogma o di un concetto. È una decisione intuitiva. Nel film sono coinvolti anche attori professionisti. Direi che questa estetica si basa soprattutto sul mio gusto.
Colpisce il fatto che la scena dell'esecuzione sia stata riproposta nella prigione di Bucha, una città che purtroppo è diventata teatro di uno degli episodi più brutali della guerra russo-ucraina. Che effetto ti fa oggi questa occorrenza ? E l'evoluzione della guerra ti ha spinto a riflettere ulteriormente sul film e sul processo creativo?
È una coincidenza che sarebbe stato meglio non si fosse verificata. All'inizio della guerra stavamo già lavorando sul sonoro, ma anche prima dell'invasione su larga scala, il film accennava ai metodi violenti dell'impero, che continuavano a essere utilizzati anche dopo il crollo dell'URSS. Liberarsi del sovietismo è un processo lungo e difficile.
(nell'immagine principale: dettaglio di un fotogramma da La Palisiada con Bohdan in carcere; all'interno, fotogramma dal film con il gruppo dei detective. Si ringrazia Valeria Sochyvets)