"Le stelle inquiete" nell'eclissi del cinema italiano
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NAPOLI, 19 MARZO - Dopo “Agorà” di Alejandro Amenàbar, incentrato sulle vicende della filosofa Ipazia, la luccicanza della filosofia al femminile torna a costituire motivo di ispirazione cinematografica, sia pure per la direzione poco illuminata di Emanuela Piovano, la regista torinese de “Le rose blu” e di “Amorfù”. [MORE] A finire nel disgraziato mirino, o se preferite, nella bislacca cinepresa dell’autrice piemontese, è Simon Weil, contradditoria ed affascinante pensatrice del Novecento dalla personalità complessa. La divulgazione del suo pensiero si deve soprattutto alla pubblicazione postuma (1947) della raccolta di pensieri religiosi dal titolo “L’ombra e la grazia”, che Gustave Thibon estrasse dai suoi diari. Thibon e la sua famiglia avevano ospitato l’insegnante di filosofia dalle pulsioni mistiche nella propria fattoria marsigliese nell’estate del 1941, mentre Parigi era occupata dai tedeschi. Simon Weil morirà di tubercolosi in Inghilterra nel 1943, a soli 34 anni. Il suo vero martirio è stato diventare protagonista di un filmetto per il quale si spelleranno le mani gli amanti delle fiction e degli spettatori con i fazzoletti profumati di lavanda.
Un equivoco va immediatamente dissipato. Simon Weil attraversa “Le stelle inquiete” come una meteora, le cui illuminazioni sono farfugliate con insopportabile accento francese come i lemmi di un prontuario impolverato piuttosto che come intenibili slanci del pensiero. Il protagonista finisce per diventare Thibon (Fabrizio Rizzolo), il filosofo contadino che ne fu amico, ne raccolse l’eredità intellettuale e ne subì la malia, ma allo spettatore non riesce proprio di subire il “fascino” maldestro dell’agricoltore sbarbatello doppiato con dilettantistiche modulazioni della voce, che meglio si apprezzerebbero in prodotti quali “Centrovetrine” o “Beautiful”.
La brava attrice francese che interpreta la filosofa, Lara Guirao, predica col viso scavato nel deserto di una sceneggiatura inesistente, che vorrebbe gabellare i silenzi per poetiche evocazioni della ruralità e le ellissi narrative per atmosferiche sospensioni. Ma sono velleità pavesiane da lasciare a chi la regia la padroneggia con altro carisma, come Giorgio Diritti ne “L’uomo che verrà”. Il talento, invece, non verrà mai se non è nativo. Ed ecco, allora, orrori cinematografici tipici della volontà di strafare: dal patetico saluto tra Simone e Gustave, con inquadrature spericolate che turbano campo e controcampo sul sottofondo melenso di un addio sussurrato come in un mélo da incubo; fino al passare delle stagioni, trovata pseudo-geniale che dissimula un montaggio da pubblicità del Mulino Bianco. Completa il quadro Yvette Thibon (Isabella Tabarini), moglie di Gustave, i cui timori da donna insidiata si appiattiscono sulla sbozzatura malriuscita di una massaia un po’ goffa.
Per carità, non si vuole sminuire la carriera e l’opera di un montatore storico del cinema italiano come Roberto Perpignani, già collaboratore di Bertolucci e dei Taviani. La casa di produzione, Kitchen Film, ce ne propina sul sito un pistolotto di oltre tre quarti d’ora, in cui se la suona e se la canta con la regista.
Ma che il film sia stato selezionato a Montreal; che Perpignani abbia il suo signor pedigree e l’Oscar sulla mensola; che la co-sceneggiatrice Lucilla Schiaffino abbia vinto il Nastro d’Argento per “Il più bel giorno della mia vita”; tutto ciò non risana le debolezze di un’opera dal soggetto di indubbio interesse, ma dallo sviluppo fitto di magagne, a tratti perfino risibile. I film si fanno con le idee e con l’occhio, non con il curriculum.