Il vizio della speranza, intervista a Edoardo De Angelis: "Il mio film più militante"
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Sembra che galleggino storie sul fiume Volturno, ed Edoardo De Angelis (Mozzarella stories, Perez, Indivisibili) è così navigato da saperle canalizzare nel flusso della propria narrazione. Il vizio della speranza, già vincitore alla Festa del Cinema di Roma, segna per il regista napoletano classe ’78 il ritorno al retroterra di Castel Volturno, già lido della storia d'amore sororale dii Indivisibili. Divisibili, contro natura ed a dispetto dell'amore filiale, sono madri e figli: la giovane Maria, (Pina Turco) al soldo della cinica signorotta locale, collabora infatti al traffico locale di prostituzione e maternità surrogata. Nel dramma sociale più acuto, ma spesso silenzioso, anche una nota lieta viene assorbita nell’area di pericolo: la gravidanza inattesa. Di fronte a scelte etiche e di sicurezza personale, la donna si chiede se affrontare le conseguenze dell’amore. Ne abbiamo discusso col regista Edoardo De Angelis.
ANTONIO MAIORINO: il tuo racconto muove dalla fisicità del territorio e dei corpi, ma poi si sviluppa senza rinunciare ad un forte simbolismo. La curiosità, allora, è se la tua prima idea sia stata quella di un personaggio, in tutta la concretezza del suo profilo, oppure un concetto astratto, come quello di speranza o di maternità.
EDOARDO DE ANGELIS: ho seguito entrambe le strade. Non sono percorsi in contrapposizione, anzi, penso che nella realtà sia nascosto un senso magico: c’è un significato emblematico che si esprime attraverso i simboli ed io provo ad incastonarli nella realtà che osservo. Il fatto reale più magico che potessi immaginare è proprio l’evento della nascita. Per ragionare sul tema del futuro, raccogliendo storie di donne e uomini della terra che più in questi anni mi ha ispirato, quella attorno al Volturno, ho pensato che la storia al tempo stesso più concreta e più magica fosse proprio la storia di una nascita.
Ti provoco con una citazione: “il testo anticipa il luogo, e con questo sembra talvolta precederne la scoperta”. Appartiene ad uno studioso francese, Bertrand Westphal, che di recente ha teorizzato il concetto di geocritica, ossia una critica delle narrazioni basata sulla leggibilità dei luoghi narrati. Secondo te lo spettatore cosa scopre di Castelvolturno attraverso Il vizio della speranza?
L’intento non è tanto quello di far scoprire una terra particolare, quanto di svelare che quella terra è l’Italia oggi. La scoperta più commovente che ho fatto io è stata quella di conoscere un angolo di casa mia che non conoscevo. Ho scoperto che sotto l’apparente desolazione c’è una vita che non smette di rigenerarsi e questo continuo rincorrersi di vita e morte rappresenta per me un magnete irresistibile e fortissimo. Non si tratta di ambientare una storia a Castelvolturno: la terra genera le storie, io mi limito a raccoglierle e raccontarle. Meglio: a tramandarle.
Ma anche tramandare non è un gioco passivo. Sempre lo stesso studioso, Westphal, sostiene che ogni autore nel produrre un testo applichi inevitabilmente un punto di vista che comporta uno schema visivo, olfattivo, tattile auditivo. Per la tua Castelvolturno hai cercato l’obiettività o hai applicato un filtro personale?
Non pretendo di fare la fotografia dei luoghi, anche perché non servirebbe il mio lavoro per questo. Osservo la terra e le persone che la abitano, per poi cercare di trarne un distillato. Cerco di trarre qualcosa che possa avere a che fare con qualunque luogo e qualunque tempo. Spesso trovo lì le rappresentazioni dei conflitti umani espresse nella maniera più estrema ed evidente: lì tutto sembra chiaro. Nello stesso metro quadrato è possibile vedere la distruzione ed il tentativo di ricostruzione, il vizio e la speranza.
E questo vizio della speranza è contagioso? Nel proprio arco narrativo, il personaggio di Maria vive un rivolgimento puramente interiore o cambia qualcosa anche all’esterno, incidendo in questo mondo che sembrerebbe invece auto-ripetersi nelle stesse forme?
Questo è l’auspicio politico contenuto in questo racconto. Maria ad un certo punto del film è posta nella possibilità di abbandonare quel mondo che l’ha avvelenata crescendola e invece non lo fa. Ritorna in quel mondo e pone all’interno di quello stesso mondo il seme di una ribellione, di una rivoluzione speranzosa in cui i figli si ricongiungono con le madri.
C’è una scena in cui Maria ritrova un po’ di leggerezza, per quanto fugace, in una vecchia giostra, assieme a due semi-sconosciuti. A parte l’inevitabile confronto con una celebre scena de I 400 colpi di Truffaut, sono colpito dalla durata della sequenza e dall’attenzione della macchina da presa al viso di Maria, cioè Pina Turco. Cosa le hai chiesto?
Ho sempre vagamente desiderato fare una scena come quella di Truffaut nel suo indimenticabile primo film. Mi colpì l’uso della macchina fissa che però contrastava col movimento forsennato dello sfondo della scena. Ragionando della forza centrifuga che sprigiona la giostra, ho voluto che Maria riuscisse per un attimo a staccare i piedi da terra, riuscisse a godere di quella forza che la spinge fuori da quel centro che l’ha avvelenata. Ma solo per un attimo: un tempo breve prima di ripiombare in compagnia dei suoi paesani. Le indicazioni che ho dato a Pina sono quelle che le ho dato sempre, molto semplici: sta buttando il sangue, vive un attimo di spensieratezza con degli sconosciuti, che più dei suoi familiari le danno calore, affetto, amicizia; e poi, quell’ultimo barlume dell’essere umani, dell’aiuto reciproco. E lo gode; ma poco dopo si ricorda che ha poco tempo da vivere perché si sta avvicinando, pare, verso la morte.
A proposito di movimento centripeto: l’onda emotiva che si propaga verso gli spettatori, con centro proprio nella protagonista, è secondo te più di empatia o di disagio durante la visione del film?
Tutte e due le cose. Disagio ed empatia. Quando si arriva a dei livelli così intimi di rappresentazione, so per certo che l’intimità crea empatia per alcuni e disagio per altri. Guardare un essere umano che prega fa fuggire via o fa scaturire il desiderio di sedersi accanto a lui e fargli compagnia. Questa sarà l’onda lunga del film: due sentimenti contrastanti. È il film più militante che ho fatto: bisogna scegliere se abbracciare la speranza o meno. È possibile che chi sia dall’altra parte accetti di farlo: è umano, è fisiologico, è bello così. Mi sto rendendo conto che però quello che sta succedendo è una reazione di scioglimento del calore: chi volesse vedere questo film dovrebbe prepararsi ad entrare nell’azione con qualcosa di molto intimo, che lo possa riguardare nel profondo ed addirittura disturbare.
Io personalmente posso testimoniare il pianto di alcune persone in sala.
Ecco. Mi auguro comunque che tornando a casa gli spettatori possano godere di questo momento di premio catartico. Come dicevo prima, non basta fotografare la realtà, per me è importante anche mostrare come vorrei che fosse il mondo.
Pina Turco ha dichiarato: “mi piacciono i personaggi cattivi quando sono ricchi, tragici e pieni di sfaccettature come Zi’ Marì”. Nel pesonaggio di Marina Confalone, ma più in generale in questo microcosmo, c’è veramente cattiveria o c’è solo una passiva disperazione?
Sicuramente la cattiveria c’è, non posso negarlo; ma c’è anche da parte mia un sentimento di compassione nei confronti di alcuni personaggi. Non potrei mai esprimere e mettere in scena un personaggio che non amo, con tutte le sue debolezze ed antipatie. L’amore è l’unico modo che conosco per mettere in relazione i personaggi.
La gravidanza di Maria è a rischio a causa di un abuso che aveva subito da giovanissima. I corpi in questo film raccontano tantissimo con le proprie cicatrici. Come li hai seguiti? Con quale gioco delle distanze con la macchina da presa?
Sto cercando progressivamente di annullare la sensazione della presenza della macchina cinematografica. Questo desiderio è stato perseguito da molti miei colleghi nei vari processi storici che hanno interessato il linguaggio cinematografico, ma a volte questo desiderio si è tradotto nell’utilizzo di tecniche di ripresa volutamente sciatte, con una macchina a mano molto nervosa, una fotografia che veniva dichiarata inesistente, ma in cui poi, in realtà, già la lente della macchina da presa mostrava la propria presenza. Più la ripresa è casuale, più la macchina si sente; più la fotografia è sciatta, più la macchina si sente. Secondo me, invece – almeno questa è la mia ricerca personale – la messinscena e la recitazione devono essere estremamente ricercate: sono nemico della spontaneità ed amico della naturalezza. La spontaneità è solo un fenomeno epidermico, quindi superficiale, non m’interessa. Miro piuttosto a raggiungere la naturalezza, ed è possibile solo con la stratificazione dello sforzo estetico. In altre parole: le riprese sono meticolosamente preparate per sparire. La stessa cosa per la recitazione: è meticolosamente provata al fine di sparire. È come quando ci si preparare per le Olimpiadi o per una partita importante: il gesto atletico, perché diventi naturale, deve essere ripetuto milioni di volte. Ed in questa ripetizione c’è il senso di una storia che si esprime in forma di preghiera. La preghiera è ripetizione, la litania di Enzo è ripetizione, le ballate sono ripetizione. Quando le cose si ripetono, hanno un significato; tutto ciò che avviene una volta sola potrebbe essere irrilevante.
Ciò che si ripete è anche ancestrale, fa parte ab antiquo dell’umanità. Secondo te, la colonna sonora di Enzo Gragnagniello, oltre a determinare questo effetto, crea momenti di sospensione atemporale o di avvicinamento all’istante irripetibile delle emozioni?
Mi ricollego alla prima risposta che ti ho dato: ciò che è ancestrale è profondamente radicato in qualcosa che è qui e adesso, ma che si richiama anche in maniera potente a ciò che non è qui e non è ora, a ciò che riguarda un singolo uomo, in un singolo momento storico, in un singolo lembo di terra, ma anche a tutti gli uomini e sempre. Questo per me vuol dire ancestralità, ed è per questo che ho cercato di raccontare questa storia.
Hai dichiarato più volte di aver sempre fatto film sulla tua terra per motivi legati soprattutto alle tue esigenze creative. C’è in questo momento un’esigenza che sta prendendo forma, pronta a trasformarsi in un progetto venturo?
Sì. Anzi, devo rivelarti che è proprio mentre si sta concludendo un progetto che sento la spinta più forte verso un altro, perché il cervello è già in movimento, quindi è più sensibile. Poi, non si sa mai quale sarà il progetto che verrà effettivamente realizzato. Per ora sto facendo delle ricerche molto appassionanti su un personaggio realmente esistito, assai particolare, protagonista di un evento bellico avvenuto nelle acque dell’Atlantico nel 1940. Il personaggio è Salvatore Todaro, sommergibilista che affondò la nave nemica belga ma portò in salvo i naufraghi. Mi ha colpito per la sua umanità: nonostante avesse prestato giuramento al Re e al Duce, decise di applicare la legge del mare e di farle prevalere sulle leggi della guerra.
Un dato costante della tua opera: l’umanità.
Quello è proprio il mio territorio d’indagine. Faccio film perché voglio tentare di capirci qualcosa. Poi di solito scopro soltanto altri punti interrogativi. Ma per me il cinema è questo: un asse di sintesi e di disvelamento.
USCITA: 22 novembre 2018
GENERE: Drammatico
REGISTA: Edoardo De Angelis
CAST: Pina Turco, Massimiliano Rossi, Marina Confalone, Cristina Donadio, Odette Gomis, Juliet Esey Joseph, Mariangela Robustelli, Jane Bobkova, Demi Licata, Marcello Romolo
PAESE: Italia
DURATA: 90 Min
DISTRIBUZIONE: Medusa Film
(Immagini: in alto, fotogramma dal film Il vizio della speranza; all'interno, prima immagine: Edoardo De Angelis e Pina Turco sul set; seconda immagine: Marina Confalone e Pina Turco in una scena. FONTE: Ufficio Stampa Fosforo)
Antonio Maiorino