Entra nel nostro Canale Telegram!
Ricevi tutte le notizie in tempo reale direttamente sul tuo smartphone!
NAPOLI, 16 MARZO - Camuffato da intervento di deontologia farmaceutica, gli spettatori italiani hanno trovato all’inizio di “Holy Water” – nelle nostre sale dall’11 marzo, ma la produzione risale al 2009 – un “pistolotto sul pistolino” della Pfizer, colosso dell’industria produttrice di Viagra, che precisa di non aver concesso autorizzazioni alla casa cinematografica, benché il nome dell’azienda si legga chiaramente nel film. [MORE] Difficile scorgere autentica acredine o polemica para-legale da parte dell’ufficio marketing della pillola blu nei confronti di un film che, gratuitamente, mette su pellicola una compiaciuta marchetta. Nemmeno l’unica nel panorama attuale, considerando l’uscita recente di “Amore ed altri rimedi” di Edward Zick, il cui protagonista (Jake Gyllenhaal) interpreta un informatore scientifico della Pfizer. Se volessimo, tuttavia, esulare dal folklore ormonale per parlare di buon, vecchio cinema, non troveremmo molta carne al fuoco.
La commedia, sceneggiata da Michael O’Mahony e diretta da Tom Reeve, s’impenna a fatica, checché ne abbia scritto un manipolo di critici inclini a scambiare gag pacchiane e gelide per umorismo british. 30 minuti circa per raccontare il nulla di un letargico villaggio nel nord dell’Irlanda, non lontano da Belfast, dove gli eventi clou sono i funerali, i giovani scappano o sognano di farlo e la grana scarseggia. Quattro amici cercano di sbarcare il lunario rapinando un carico di Viagra per rivenderlo a peso d’oro ad Amsterdam. Ma squadre di scalcagnati poliziotti sono già sul piede di guerra, così si opta per la misura prudenziale e bislacca di nascondere i bidoni con le pillole miracolose nel pozzo di acqua santa fuori città. Con benedizione (?) della statuetta della Vergine, per la serie “andate e moltiplicatevi”, le falde sono inquinate dalle pillole. Ma è davvero inquinamento, o rivoluzione sessuale?
Direttamente dall’Irlanda rurale (ma le riprese sono tutte in Inghilterra), un’accozzaglia di episodi pecorecci, che poco ha a che fare con titoli inopportunamente scomodati a destra e a manca, come “L’erba di Grace” o “Full Monty”. Siamo di fronte ad una sceneggiatura sviluppata con la furbesca consapevolezza che è il soggetto in sé ad ammiccare, così come su certe trovate da avanspettacolo si ricama un’intera farsa con sostanziale pelandroneria creativa. Tripli sensi che vanno a parare sempre sul senso unico, garbatamente sessuale; l’accostamento irriverente tra sesso e religione, da barzelletta più che da commedia; quattro tiepidi attori protagonisti che steccano sia da solisti che in gruppo; una briglia totalmente sciolta nella cialtroneria senza limiti dalla contaminazione della falda in poi. Si salva solo l’albergatore John Lynch, che ramazza con improbabile aspetto montanaro, o metallaro, ed anima l’unica scena in grado di strappare un sorriso: quella del massaggio nella sauna.
Immalinconisce che anche un critico egregio come Caprara si sia unito ai salamelecchi definendo l’opera, sul Mattino, una “perla”. Sarebbe una buona volta il caso di riconoscere che “gradevole” e “buono” non sono sinonimi e che prendere in giro due o tre stereotipi made in Ireland - provincialismo, bigottismo, diffidenza - è scimmiottamento e non humour.
ANTONIO MAIORINO