Governo, Di Maio prova a dettare le linee programmatiche ma il PD non accetta ricatti
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ROMA, 30 AGOSTO – Ritornano tensioni e schermaglie fra i leader dei due partiti in trattativa per la possibile formazione della nuova maggioranza di governo. Al termine del colloquio con il premier incaricato Conte, Di Maio ha tenuto un breve discorso ai cronisti presenti nei saloni di Palazzo Montecitorio, ai quali ha spiegato che il Movimento intende imporre condizioni che ritiene imprescindibili per stringere l’alleanza con il Partito Democratico.
“Bisogna essere tutti d’accordo a realizzare i punti del nostro programma altrimenti non si va avanti, perché non guardiamo a un governo solo per vivacchiare” – ha avvertito Di Maio, fiancheggiato dal capogruppo alla Camera Stefano Patuanelli e dall’on. Francesco Silvestri, uno dei principali protagonisti delle trattative delle scorse ore con la delegazione dem. Il capo politico del partito fondato da Grillo e Casaleggio avrebbe consegnato a Conte una lista programmatica ritenuta imprescindibile per la formazione dell’agenda di governo con il PD, al quale verrebbe in tal modo imposto di intervenire sulle 20 tematiche che più stanno a cuore al Movimento (e si tratta già di un raddoppio, rispetto agli ormai famosi 10 punti di cui si era parlato durante gli incontri con il Capo dello Stato).
In testa alla lista sarebbe stato posto ancora una volta il tema del taglio dei Parlamentari, richiesta più volte ribadita dal M5S e recepita in un ddl costituzionale arenatosi a Montecitorio prima dell’ultimo voto decisivo. Il PD si è già mostrato contrario alla riforma che era stata proposta da M5S e Lega prima della crisi di governo, bocciandola nei suoi vari passaggi parlamentari, ma non per la riduzione in sè del numero dei componenti dell’organo legislativo, quanto per la ravvisata necessità di inserire il taglio nel contesto di una omogenea e coerente riforma istituzionale, che possa compensare la riduzione quantitativa della rappresentanza parlamentare. Del resto, anche la riforma proposta nel 2016 da Renzi prevedeva una riduzione complessiva del numero dei parlamentari, ma inserendola in un ampio meccanismo di revisione del bicameralismo perfetto e delle funzioni generali assegnate alle Camere sul piano costituzionale; molti esponenti dem, dunque, contestano il fatto che il semplice taglio numerico servirebbe soltanto ad indebolire in maniera eccessiva la rappresentanza popolare ed in generale le Camere, senza ridisegnarne effettivamente poteri e responsabilità magari anche con una revisione ulteriore della legge elettorale che punti a realizzare un sistema maggiormente proporzionale per evitare che pochissimi partiti possano monopolizzare il Parlamento. Le due posizioni non paiono del tutto inconciliabili, ma resta da capire quanto il Movimento sia disposto ad attendere per completare la riforma senza affrettare il taglio netto che risulterebbe dal ddl già vicino all’approvazione definitiva.
Altri punti di frizione potrebbero poi riguardare la richiesta di una legge restrittiva sul conflitto di interessi ed una riforma generale del sistema radiotelevisivo, che assicuri una maggiore rappresentatività degli interessi dei cittadini. Molto discussa, inoltre, potrebbe essere la volontà di dimezzare i tempi della giustizia e riformare il metodo di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura; la svolta giustizialista è da sempre una linea direttrice del partito pentastellato, ma in questo caso Di Maio è arrivato anche a quantificare il tempo massimo di durata ideale di un processo, dai suoi consiglieri fissato in 4 anni. Ancora, potrebbe essere complicato anche che i dem accolgano la richiesta di riformare complessivamente il sistema bancario – separando le banche d’investimento da quelle commerciali – e di riorganizzare i servizi socio-sanitari territoriali ed il percorso formativo medico.
Qualche dubbio potrebbe riguardare la realizzazione delle nuove forme di autonomia differenziata richieste dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, su cui la posizione del PD non è ancora definita (il governo Gentiloni aveva avviato il processo di riforma statutaria sottoscrivendo vari documenti programmatici con queste regioni, ma successivamente diversi esponenti dem hanno fatto appello alla necessità di garantire omogeneità di trattamento per tutte le Regioni del Paese). Il M5S, inoltre, chiede di porre fine alla vendita di armamenti ai Paesi belligeranti.
Molto più facile, invece, che l’accordo si trovi in poche ore sull’elaborazione di una manovra espansiva ed equa dal punto di vista sociale, che consenta di evitare l’attivazione delle clausole di salvaguardia e dunque il paventato aumento dell’Iva, di introdurre il salario minimo, di tagliare il cuneo fiscale, di programmare nuove riforme per la sburocratizzazione della PA, di sostenere famiglie e disabili e risolvere l’emergenza abitativa. Una direzione comune si potrebbe intraprendere anche per un cambio di paradigma ambientale, per trasformare l’Italia in un Paese alimentato sempre più ampiamente da energie rinnovabili, nonché sulla proposta di un piano straordinario di investimenti per il Mezzogiorno (Di Maio ha in particolare chiesto l’istituzione di una Banca pubblica per il sostegno alle imprese meridionali). Una convergenza generale riguarderebbe poi senz’altro la tutela dei beni comuni e dei minori, nonché maggiore innovazione digitale e nuove politiche di genere, tra cui il superamento delle disparità retributive ed una migliore conciliazione tra vita e lavoro. Ultimi punti programmatici, infine, che pure potrebbero essere inclusi in una ipotetica agenda governativa con il PD, riguarderebbero la tutela degli animali ed il sostegno a piani di settore relativi alle filiere agricole.
Indipendentemente dai contenuti, su molti dei quali una convergenza sarebbe più che possibile, il Partito Democratico sembra non vedere di buono occhio l’atteggiamento impositivo manifestato dal Movimento 5 Stelle: la linea comune dei dem, espressa da Del Rio, Boschi, De Micheli ed Orlando, è quella di non accettare alcun ultimatum dai possibili alleati, senza temere la possibilità alternativa che la quadratura non si raggiunga e che alla fine si debba tornare alle urne. Il capogruppo pentastellato alla Camera, Stefano Patuanelli, all’uscita da Montecitorio ha provato a gettare acqua sul fuoco e rasserenare gli animi, assicurando che non c’è nulla da temere e che nelle prossime ore riprenderanno le trattative con buon senso comune e rispetto reciproco. A questo punto, tuttavia, il varo del governo Conte II, fino ad oggi quasi certo, non appare affatto immediato né scontato.
Fonte immagine: ilfattoquotidiano.it