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ROMA, 23 MAGGIO 2013 – Quando l'autostrada sulla quale viaggiava la sua auto saltò in aria sotto 500 chili di tritolo, Giovanni Falcone non viveva più a Palermo da diversi mesi, anche se periodicamente tornava nella città dove per anni aveva lavorato come magistrato e dove era diventato uno dei simboli, sicuramente il più noto insieme al collega e amico Paolo Borsellino, della lotta contro la mafia.
Quel sabato 23 maggio 1992 quando fu ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Mortinaro e Vito Schifani, il giudice era da poco atterrato all'aeroporto Punta Raisi. Veniva da Roma, città nella quale si era trasferito all'inizio di marzo dell'anno prima, accettando la proposta dell'allora guardasigilli Claudio Martelli di dirigere gli Affari penali del Ministero della Giustizia. Una decisione non facile quella di andare a lavorare a Roma negli uffici di via Arenula in vista della formazione della Superprocura antimafia. Una decisione che gli costò attacchi, insulti e accuse di essersi venduto ad una parte politica e di averlo fatto per sete di potere. Accettò comunque quell'incarico, convinto che, dopo lo smembramento del pool di Palermo, da Roma potesse incidere molto di più nella lotta alla mafia di quanto sarebbe riuscito a fare rimanendo in Sicilia.[MORE]
D'altra parte gli attacchi e le delegittimazioni contro di lui non erano certo una novità per Giovanni Falcone. Come racconta Francesco La Licata, che fu suo amico per molti anni, in un bel libro (Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli) che ricostruisce la storia umana e professionale del magistrato, Falcone «è stato attaccato da tutti: democristiani, socialisti, magistrati, alti commissari, investigatori». Attacchi ai quali il giudice rispondeva in questo modo: «Forse è proprio questa la dimostrazione migliore della mia autonomia. Io faccio il magistrato, non devo cercare consensi. Quando arresti qualcuno, specialmente negli ambienti della cosiddetta criminalità dei colletti bianchi, scontenti alcuni e fai felici altri. Ma il giudice deve guardare il reato e nient'altro».
Attacchi alla sua persona e alle novità da lui portate nelle modalità della lotta contro la mafia erano cominciati già nei primi anni Ottanta e sarebbero proseguiti per il resto della sua vita. Falcone non era ancora molto conosciuto, per lo meno dall'opinione pubblica nazionale, quando Rocco Chinnici – allora Consigliere istruttore al Tribunale di Palermo – gli affidò quello che sarebbe diventato uno dei più importanti processi contro la mafia, forse il primo nel quale il magistrato introdusse uno dei metodi che sarebbe diventato imprescindibile nelle inchieste contro Cosa nostra, gli accertamenti bancari. Il “processo Spatola”, un'indagine sui traffici internazionali di eroina, grazie anche alle intuizioni di Falcone e alle novità metodologiche introdotte da lui nelle indagini, svelò una serie di connessioni tra la mafia palermitana, gli Stati Uniti, la massoneria e il mondo politico-finanziario.
Fu con questo processo che Falcone comprese appieno quanto fosse complesso e ramificato il sistema mafioso e quanto fosse importante modificare le modalità investigative adottate fino a quel momento nelle inchieste contro la mafia. Di questo processo è lo stesso Falcone a parlare in un'intervista-racconto concessa a Lucio Galluzzo, Francesco La Licata e Saverio Lodato, poi confluita nel volume Rapporto sulla mafia degli anni '80. Gli atti dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. «Mi resi conto – racconta il giudice - che proprio perché il fenomeno era ramificato, socialmente ed economicamente, non andava affrontato direttamente. Si imponeva la ricostruzione dell'intero percorso seguito da un impetuoso fiume di dollari che dagli USA sfociava in Sicilia in cambio di eroina raffinata. L'unica strada era quella degli accertamenti indiretti e inequivocabili: feci sequestrare – ricordo che qualche collega pensò che fossi uscito di senno – tutti i documenti bancari e le distinte di cambio».
Come di frequente accade a chi va ad intaccare interessi mai toccati prima, Falcone e Chinnici furono accusati di voler compiere un attentato contro l'economia palermitana. Fu proprio durante questa inchiesta che al giudice fu assegnata la scorta. «Un giorno – spiega nella stessa intervista-racconto - vennero a trovarmi in ufficio Ignazio D'Antone, capo della squadra mobile di Palermo, e il comandante del reparto operativo dei carabinieri Tito Baldo Honorati. Non spesero molte parole per comunicarmi che era stato deciso che fossi scortato». Fu da quel momento, e ancor più dopo l'uccisione di Rocco Chinnici, che la stessa cittadinanza di Palermo si divise. Da una parte chi cominciò a vedere in Falcone e nel pool di magistrati guidati prima da Chinnici e poi da Antonino Caponnetto un simbolo della lotta alla mafia, gli uomini sui quali poter fare affidamento per quella che diventava sempre di più una voglia di riscatto contro lo strapotere della mafia. Dall'altra parte gli attacchi, le delegittimazioni, le maldicenze, provenienti non solo dai palazzi del potere ma anche da una parte dei cittadini, alcuni dei quali cominciarono a vedere in Falcone e nel pool un fastidio per il quieto vivere, arrivando a lamentarsi del rumore delle sirene della scorta del giudice e preoccupandosi – in modo particolare dopo la morte di Chinnici – di eventuali attentati che avrebbero potuto colpire anche i cittadini.
Quei metodi d'indagine introdotti da Falcone, però, si rivelarono giusti e vincenti, specie se uniti ad altre novità introdotte dal pool, all'appoggio di una parte consistente dell'opinione pubblica e ad una convergenza di altri fattori che fecero parlare in quegli anni di una “Primavera di Palermo”. Fu ciò che permise la messa in atto e la celebrazione del primo “Maxiprocesso” alla cupola di Cosa Nostra. Al di là dei pur fondamentali risultati strettamente giudiziari, merito di quei magistrati non fu solo l'aver portato davanti alla giustizia alcuni dei vertici della cupola di Cosa Nostra, ma l'aver fatto luce sull'intera organizzazione, l'averne compresi i meccanismi di funzionamento e l'averne rivelato la stessa struttura. Ruolo importante, per quanto non unico – nonostante le accuse a Falcone e al pool di affidarsi al “pentitismo” - lo ebbero i pentiti.
Nel celebre libro Cose di Cosa Nostra, scritto con Marcelle Padovani, Falcone racconta che «Prima di lui [Tommaso Buscetta, Ndr], non avevo - non avevamo - che un'idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice». Poche righe dopo Falcone sottolinea un aspetto fondamentale del ruolo dei pentiti nelle indagini contro Cosa Nostra: «Oserei dire – afferma il magistrato - che, quanto al contenuto delle loro rivelazioni altri pentiti hanno avuto un'importanza forse maggiore di Buscetta, ma lui solo ci ha insegnato un metodo, qualcosa di decisivo, di grande spessore. Senza un metodo non si capisce niente. Con Buscetta ci siamo accostati all'orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello (e le indagini) in quattro, per negare il carattere unitario di Cosa Nostra».
Per colpire Cosa Nostra era necessario prima di tutto conoscerla, avere una «visione organica delle connessioni, la cui assenza in passato, aveva provocato la “raffica delle assoluzioni”». Questo fu probabilmente il merito più grande di quei magistrati, l'essere riusciti a penetrare all'interno di un mondo, fino a quel momento sconosciuto nei suoi meccanismi più interni, se non talvolta addirittura negato nella sua stessa esistenza, non affidandosi solo alle pur necessarie e indispensabili classiche indagini sugli omicidi, ma scoperchiando il sistema, comprendendone la visione d'insieme e permettendo anche all'opinione pubblica di venirne a conoscenza fino in fondo.
(foto da Huffingtonpost)
Serena Casu