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NAPOLI, 9 APRILE - Esce in dvd "I fiori di Kirkuk" (Medusa) ed il giovane regista Fariborz Kamkari ne approfitta per spezzare una lancia a favore del collega iraniano Jafar Panahi, condannato dal regime a 6 anni di detenzione ed al divieto per 20 anni di scrivere e girare film. [MORE]
''E' importante che il mondo continui a chiedere la liberazione di Panahi: sostenendo lui, si sostengono anche tutti i giovani registi indipendenti che vogliono raccontare la verita' sull'Iran'' - ha dichiarato Kamkari.
Con “I fiori di Kirkuk”, il giovane curdo nato in Iraq, d’adozione artistica italiana, traspone su pellicola le suggestioni dell’omonimo romanzo di suo stesso pugno, infrangendo il singolare tabù dell’industria cinematografica sulla questione curda. Lo fa, in realtà, attraverso il formato rassicurante della storia d’amore impossibile, quella di Mokthar per Najila, realizzando un felice connubio tra tragedia storica e responsabilità individuale, carneficina militare e sacrificio d’amore, dolore di popoli e dolore di amanti.
Iraq, anni ’80. Il regime di Saddam Hussein è impegnato nella pulizia etnica a danno del popolo curdo. Nella Baghdad inospitale alle minoranze prese di mira, l’irachena Najila, trasferitasi a Roma per studiare medicina, fa ritorno con l’obiettivo di ritrovare l’amato Sherko, medico curdo impegnato nel sostegno delle forze ribelli. La ostacoleranno il retaggio culturale del proprio ambiente, gli esacerbati contrasti familiari e l’insistente corteggiamento del generale Mokthar. Sceglie la strada scomoda ma obbligata del doppio gioco, diventando guardia medica dell’esercito iracheno. È il punto di non ritorno: la determinazione nel ricongiungimento a Sherko prenderà la forma dell’impegno ineludibile a favore del popolo sottoposto all’angheria irachena.
La storia di Giulietta che diventa un misto tra Mata Hari e la versione femminile di Schindler rasenta in più di un punto il tono leggermente molesto del melò, ma con sollievo dello spettatore risparmia in buona sostanza l’agiografia, limitandosi all’ambiziosa – e solo in parte riuscita – sconfessione del prototipo sociologico femminile mediorientale. Quella del regista non è una riscrittura storica, che suonerebbe per giunta smaccatamente di parte: piuttosto è il rinnegamento del cliché sulla relazione tra uomini e donne nella realtà del Medio Oriente, una voce che sa di levarsi scomodamente ma di farlo con la consapevolezza dell’effettiva esistenza di personaggi femminili carismatici e non passivi, generalmente ignorati. La scelta ideologica si fa scelta artistica, concretando una sceneggiatura che sembra gemmare dalla sola figura di Najila, come i fiori a Kirkuk nella sabbia insanguinata dell’Iraq.
Nessuna santificazione, dunque, ma la platealità da “assolo femminile in trincea” permane, facendo ombra a co-protagonisti avviliti a meno di comprimari. In proposito, una sbozzatura più incisiva poteva essere riservata al generale invaghito, combattuto tra la patria e l’amore, un conflitto solo adombrato, il cui potenziale tormento è stato ridotto ad intermittenza repentina di umori. Plausibile sintomo di diversità culturale: la poetica mediorientale è quintessenzialmente narrativa, cavalca le contraddizioni senza scandagliarle, assorbe il dramma nel racconto e stempera l’espressività nella semplicità di suggestione. Il pedigree in parte “televisivo” di Kamkari ha fatto il resto
ANTONIO MAIORINO