Blanco en blanco, scene da un genocidio. Intervista a Théo Court: "Ogni sguardo è politico"
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Blanco en blanco, scene da un genocidio. Intervista a Théo Court: "Ogni sguardo è politico"

domenica 10 maggio, 2020

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Blanco en Blanco di Théo Court: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.


Blanco en blanco di Théo Court aveva vinto il Premio per la Migliore Regia nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2019, dove si era accaparrato un altro riconoscimento di peso: quello della federazione internazionale della stampa cinematografica, il Premio FIPRESCI - Miglior film di Orizzonti e delle sezione parallele. Eppure, non c’è bisogno di correre così indietro sul calendario per aggiornarne il palmares: lo scorso 23 aprile ha sbancato la 32esima edizione del Festival Cinelatino di Tolosa, una delle kermesse mondiali più influenti nel filone del cinema latino-americano.


LA TRAMA
Di là del lustro della bacheca, Blanco en blanco è un gioiello che splende di luce propria, al punto da abbagliare i cinefili incuriosendoli sull’evoluzione del percorso artistico dell’autore cileno Théo Court, qui all’opera seconda dopo Ocaso. Il film rielabora in chiave western il genocidio del popolo Selknam, perpetrato durante la conquista della Terra del Fuoco in Cile, ma diventa molto di più: una riflessione intrigante sull’immagine, fotografica e cinematografica, e sulla sua innocenza, o colpevolezza, o neutralità. Il protagonista, infatti, è un fotografo, Pedro (Alfredo Castro, big del cinema cileno internazionale, spesso in film di Pablo Larraín), chiamato nella Terra del Fuoco per le fotografie del matrimonio di un potente latifondista, Mr. Porter. La moglie, si dà il caso, è poco più di una bambina; al fotografo, tuttavia, non dispiace troppo, e la musa diventa ossessione – mentre il latifondista latita, e non si fa mai vedere. Quando lo sguardo di Pedro osa troppo nei confronti della sposa bambina, e il fotografo di matrimonio diventa avido voyeur, la comunità locale lo punisce. Ma lo ingloba: perché Pedro, congelato nell’ostile Terra del Fuoco, viene assoldato come “tecnico delle immagini” del massacro dei nativi Selknam. Da scene da un matrimonio, a scene da un genocidio.


PERCHÉ INNAMORARSI DI QUESTO FILM
Nella fredda Terra del fuoco, Blanco en Blanco unisce alla gelida riflessione cinematografica la calda ipnosi di una regia avvolgente: prende nella testa, prende sulla pelle. Sul piano delle idee, il film scaturisce dagli interrogativi di Théo Court sia sulla pagina di storia rimossa dalla memoria cilena, sia sul ruolo di chi osserva e produce immagini: “Chi era quel fotografo? Chi partecipava a quelle azioni, come un voyeur assente?”, si chiede il regista, dopo aver visto le foto d’epoca della spedizione di fine ‘800 di Julius Popper in quelle terre, con tanto di carnefici e vittime in posa. Sul piano della meravigliosa pelle cinematografica, Court si allontana nei piani lunghi, si zittisce nel vento freddo del montaggio sonoro, si nasconde confondendosi dietro l’obiettivo del fotografo-voyeur, cattura il respiro della terra non meno degli ansimi e sussurri degli interni a lume di candela. Una obra maestra, ho detto all’autore, prima di intervistarlo.

 

L’INTERVISTA: THÉO COURT RACCONTA

ANTONIO MAIORINO: Smontiamo il titolo: Blanco en blanco. Cosa c’è di bianco nel tuo film? Ma anche: cosa c’è di nero?

THÉO COURT: avevo molta voglia di filmare la neve, con l’idea di generare una specie di pagina bianca, come se il bianco fosse l’inizio di una storia, e in questo caso della storia del Cile. Una storia, peraltro, che non è scritta: né il governo del Cile né quello dell’Argentina si sono fatti carico di quasta pagina di storia, del genocidio di cui si parla nel film. Oltre all’idea di questa pagina bianca non scritta, per me era importante anche parlare di come si vada a oscurare la memoria: attraverso la neve, il bianco, una certa purezza della nebbia, come si vede nel film. All’inizio nella sceneggiatura c’erano molto più bianco e neve, ma a causa dell’inquinamento atmosferico non ho trovato tanta neve come avrei voluto. Il nero è nel chiaroscuro che si crea con gli interni: un mondo di raccoglimento, fatto del nero che si nasconde, che non si mostra. È un’oscurità nascosta dal bianco stesso, ma che si muove lungo una traiettoria che lo porta proprio al bianco finale del film (SPOILER), in cui non c’è più neve: c’è solo il paesaggio arido e avviene il massacro.

Ti sei trovato nella Terra del Fuoco come un artista di fronte al proprio soggetto. Il pittore ha il pennello, tu la macchina da presa. Doppia domanda: dal punto di vista tecnico, qual è stata la maggiore difficoltà organizzativa? Ma soprattutto, dal punto di vista artistico, cosa ti ha maggiormente ispirato? Il vento, il biancore, l’oscurità, il silenzio: il tuo film è fatto di questo. 

Per quanto riguarda la produzione, è stato davvero molto complicato effettuare le riprese nella Terra del Fuoco, perché quella zona è divisa in due: la parte argentina e quella cilena. Quest’ultima non è molto conosciuta, non c’è molta gente né ci sono luoghi dove dormire. La logistica è delicata e molto difficile, anche per l’esposizione alle rigide temperature. Questo, però, mi dava anche la sensazione di una conquista dello spazio, di qualcosa che c’è nello spazio ma non è mai stato toccato. Avevo una sensazione di verginità che mi piaceva, un’idea di origine che volevo trasmettere nel film, insieme, e soprattutto, a quella di una bellezza inospitale del paesaggio, potente e allucinante. Si legava, inoltre, alla verginità della ragazzina, anch’essa sul punto di essere corrotta. Tutto questo si unisce e passa attraverso il dualismo di fondo tra  il regista e il fotografo protagonista del film: la macchina da presa del cinema diventa la macchina del fotografo. Attraverso la visione del cinema, si filma il dolore, proprio in dualismo col fotografo: come un ficcanaso, come un voyeur della storia.



So che ti piace John Ford e che ti sta bene che si parli di “western” per il tuo film. Tuttavia, se proprio dobbiamo evocare i western per Blanco en Blanco, forse non dovrebbero essere i western classici quanto quelli cosiddetti “crepuscolari”, perché quello che si vede, spacciato per colonizzazione, è un crepuscolo della civiltà. Sei d’accordo? E come riassumeresti gli elementi western di Blanco en Blanco?       

La storia di questo periodo nel Cile ha tanti elementi del western. Certo, è una storia recente, che si svolge dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento, ma del western ha l’idea di portare una legge, della civilizzazione, dell’individuo contro il paesaggio e contro il selvaggio. Altro elemento tipico è quello del personaggio che giunge in uno spazio senza legge, o con una legge sconosciuta, di una forma che non è imparentata con la nostra civilizzazione e che è l’aurora, la base di un’organizzazione sociale. Sono archetipi fortemente marcati nel western.

Però nel western il nemico, il villain, il “cattivo”, appare con evidenza. In Blanco en blanco c’è un fantomatico Mr. Porter: come lo definiresti? Un fantasma, un Godot, l’antagonista assente?

È vero: Mr. Porter non appare nel film, ma è il proprietario di questo spazio, un dio che domina persino la moralità dei personaggi. Nel western questo tipo di personaggio si mostra, in questo caso no. D’altro canto, il film potrebbe sembrare all’inizio una storia di un trio amoroso (n.d.R: fotografo, sposa bambina di Mr. Porter, Mr. Porter), ma poi diventa qualcos’altro, sfocia più chiaramente nel western con il suo percorso narrativo (SPOILER) che porta al massacro finale.

Come sei riuscito a trasformare questa storia in una riflessione più generale sui meccanismi di rappresentazione, quello che i critici amano chiamare “meta-cinema”? 

È una riflessione sullo sguardo, svolta attraverso il dualismo tra regista e fotografo: come guardiamo e da dove guardiamo; come mettiamo in discussione l’idea di rappresentazione in quanto congegno, manipolazione, falsità che indirizzano l’uso delle immagini a necessità personali. In questo caso, le necessità sono del governo: dare alla colonizzazione un senso eroico. L’idea parte dalle prime immagini della carneficina nella Terra del Fuoco di Julius Popper, un conquistador che giunge lì nel 1894 e inizia a perpetrare questo massacro col suo gruppo e lo fotografa. Tuttavia, siccome la macchina fotografica a lastra non dava la possibilità di catturare delle istantanee, si capisce che quelle immagini erano rappresentazioni e messe in scena. Da qui parte l’idea generale del film: sono immagini che hanno qualcosa di cinematografico, dunque interrogano anche noi autori di cinema.

Hai definito Pedro, interpretato da Alfredo Castro, come un pedofilo estetico. Pedofilo è un termine che condanna, estetico sembra un termine che assolve, nel territorio neutrale dell’arte. Quale reazione ti aspetti da parte dei tuoi spettatori: che lo assolvano, che lo condannino, che non giudichino? 

Intanto, io non giudico il mio personaggio. Nello sguardo che propongo, faccio in modo che lo spettatore si costruisca il proprio sguardo. C’è, comunque, un elemento morale che s’impone alla gente di fronte alle immagini: è un confronto morale del presente di fronte alle attitudini del passato, quello stesso passato che ci ha generato. Da quello che ho visto e sentito, ciò da cui i miei spettatori restano più colpiti è l’elemento della pedofilia: passa a imprimersi nella mente dello spettatore ben più di quanto effettivamente accada nel film. In generale, poi, ogni immagine ha qualcosa di perverso. È una vampirizzazione del regista nei confronti di ciò che sta manipolando: al regista è indifferente come si arrivi a quell’immagine, gli interessano le sole finalità estetiche.

Alfredo Castro è la stella di questo film, ma vorrei parlare anche del resto del cast. Ocaso, tuo primo film, fu girato con attori non professionisti. Alfredo Castro è la stella perfetta, per il suo volto enigmatico e ambiguo, ma come gli hai costruito attorno la costellazione degli altri attori?             

L’altro personaggio che parla molto in inglese è il tedesco Lars Rudolph,  cha avevo visto ne Le armonie di Werckmeister di Bela Tarr, regista che mi piace e di cui sono un fanatico. Mi piaceva la faccia di Lars e m’interessava il suo tono di voce. Il volto era un po’ strano, leggermente perverso, giocherellone, è il personaggio che chiamo il proprietario, ma è un proprietario che non possiede niente. Un altro personaggio è quello del capataz (caposquadra, caporale, n.d.R.), l’attore cileno Alejandro Gojc, che compare molto nel film e pure mi piace molto. Lola Rubio è un’attrice spagnola che non aveva fatto molti film, che aveva lavorato nel cinema indipendente ma di cui mi piaceva il viso: aveva qualcosa di androgino. La ragazzina (Esther Vega, n.d.R.) era una spagnola che ho trovato dopo un lungo casting nelle Canarie, perchè il film è stato girato in parte nella Terra del Fuoco, in parte a Tenerife (la parte finale, n.d.R.). Volevo una ragazzina bella, innocente, ma di una bellezza sottile, un po’ strana, misteriosa. Gli altri sono miei amici e una sorta di miscuglio: molte comparse e membri della squadra tecnica, perché intorno a noi nella Terra del Fuoco c’erano poche persone e non riuscivamo a trovare altri attori se non a molti chilometri di distanza.



C’è una frase pronunciata da Pedro (Alfredo Castro). Dice: “I only know how to take pictures” (“io so solo come fare foto”). M’incuriosisce quel “solo”. Collaboro con un festival di film documentari come selezionatori, e a volte altri membri della squadra restano perplessi per un film perchè ritengono che alcune scelte del regista su cosa filmare non siano etiche. Secondo te, un regista può riuscire a essere sempre e solo un tecnico, oppure ogni gesto tecnico è inevitabilmente un gesto etico?          

In ogni sguardo c’è una componente politica. Non direi morale, perché la morale è abbastanza ampia. È una questione di atteggiamento. Nel mio caso, ho scelto di pormi anche come esteta dal punto di vista filmico, così come il fotografo è un esteta su ciò che fotografa. È un dualismo: il fotografo si preoccupa della luce, ma allo stesso tempo anche io sono un esteta, perché le immagini che lui propone, io le metto nel film. Il tema politico ed etico diventa, dunque, come guardo a me stesso attraverso questo doppio sguardo, come mi giudico, come mi espongo, come critico i fatti che sto narrando.

A proposito della tua tecnica: nel film colpiscono i campi lunghi e il piano sequenza. Perché ti sei preso questa distanza dai fatti del tuo racconto visuale? 

Mi è sempre piaciuto girare così. Io dico che non esiste il primo piano come qualcosa di dogmatico. Mi è sempre piaciuta l’idea che lo spettatore potesse avere la possibilità di scegliere dove vedere, senza che fossi io a costringerne lo sguardo in una cornice. Il primo piano è una visione a effetto, che segnala troppo ciò che si vede. Questo sguardo un po’ lontano dai fatti ha a che fare col mio modo di vedere, di cui ti parlavo prima, di questa idea del fotografo che si oscura attraverso la camera. Mi piace piu nascondere che mostrare. Nascondendo affiora molto più l’essenza delle cose.

Quanto è difficile per un regista fare progetti ai tempi del Coronavirus e quali sono i progetti di Theo Court?          

Adesso sono qui rinchiuso in campagna, poco al sud del Cile, dove vive mia madre. Ero in viaggio, in giro per molti paesi per il film, prima in Colombia, poi a Madrid in Spagna, dove era prevista l’uscita del film in 40 sale. Dopo quanto accaduto, sono dovuto tornare in Cile, costretto a mancare a 15 festival in cui doveva essere proiettato il film. Ma voglio filmare anche qui in campagna, con attori professionali, e non con gente del luogo. Sarà un film su un piccolo villaggio, su situazioni che a mio modo di vedere si stanno verificando qui in Cile, ma estrapolate e ambientate in un contesto rurale e contadino. È ancora un progetto astratto in fase di scrittura, ma è un’idea che ho da molto tempo, almeno nella mia testa.


TITOLO ORIGINALE: Blanco en blanco
PAESE: Spagna, Cile, Francia, Germania
ANNO: 2019
GENERE: drammatico
REGIA: Théo Court
DURATA: 100'
SCENEGGIATURA: Théo Court, Samuel M. Delgado
CAST: Alfredo Castro, Lars Rudolph, Lola Rubio, Esther Vega, Alejandro Goic, Ignacio Ceruti
PRODUZIONE: Viaje Films, Pomme Hurlante Films, Kundschafter Filmproduktion, Quijote Films (CL)
DISTRIBUZIONE: Elamedia


 


(immagini: nell'immagine principale, una fotogramma da Blanco in Blanco, Alfredo Castro interpreta il fotografo Pedro; all'interno: prima immagine, fotogramma con Esther Vega, la sposa bambina; seconda immagine, fotogramma con Lars Rudolph nei panni del proprietario)


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