"Visioni di contrabbando", Claudio Zito ci racconta Jafar Panahi: "il cinema sociale di un ribelle"
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"Visioni di contrabbando", Claudio Zito ci racconta Jafar Panahi: "il cinema sociale di un ribelle"

sabato 14 novembre, 2020

Visioni di contrabbando. Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi, di Claudio Zito, Digressioni Editore. È da qualche settimana in circolazione un tomo agile e prezioso su Jafar Panahi, noto cineasta iraniano che quanto a libera circolazione ha avuto un bel po’ di problemi: dopo gli esordi con Kiarostami e l’apprezzamento internazionale delle prime, personali opere a partire dagli anni ‘90 (Il palloncino bianco, Lo specchio, Il cerchio, Oro rosso), si è impantanato tra 2009 e 2011 in una complessa vicenda giudiziaria con cui il regime iraniano è giunto a condannarlo a sei anni di carcere, impartendogli il doloroso divieto di girare film. Per nostra fortuna, puntualmente aggirato, con spunti creativi disparati, alleanze varie e spericolate trovate di evasione – delle opere, soprattutto, di cui si è garantito una circolazione sia in patria che all’estero: da This is not a film al recente Tre volti, passando per Closed curtain e Taxi Teheran. Per Digressioni Editore, il blogger Claudio Zito, grande esperto di cinema iraniano, ricostruisce la poetica e la vicenda di Jafar Panahi, inevitabilmente intrecciate, nel bel libro Visioni di Contrabbando. Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi: una trattazione snella, ma ricca di particolari inediti e di analisi dettagliate, destinata a diventare riferimento irrinunciabile della bibliografia sull’autore iraniano. Ne abbiamo discusso in una conversazione piacevolmente apertasi a considerazioni di ampio raggio sul cinema.


ANTONIO MAIORINO: intervistando Farnoosh Samadi, regista del film 180° Rule, visto a Toronto e Londra, le ho fatto una domanda a proposito del condizionamento del contesto sociale dell'Iran nei film di cineasti iraniani. Dicevo, provocatoriamente, che non trovo la stessa incidenza del contesto nazionale in altre filmografie. Il discorso vale anche per Jafar Panahi?

CLAUDIO ZITO: da appassionato di cinema mi sento di dire che per un regista fare film nel contesto in cui si trova a proprio agio e meglio conosce sia sempre un’opportunità per realizzare film di migliore qualità. Chi prova a fare le stesse cose altrove, di solito, non ottiene risultati altrettanto interessanti. I registi iraniani hanno un problema in più: mi riferisco alle traversie di tipo produttivo a cui vanno incontro, alle regole censorie, che prevedono di passare al vaglio ministeriale tutta una serie di passaggi nella realizzazione del film, dalla sceneggiatura al cast, fino al prodotto finito stesso. Soprattutto, viene impedito al regista di trattare determinate tematiche e, anche qualora le trattasse, gli s’impone di farlo in un certo modo. L’aspetto più evidente, in tal senso, è nel controllo dei codici dell’abbigliamento, ma c’è d’altro canto una serie molto lunga di norme a cui bisogna sottostare. Nel caso di Panahi, rispetto al proprio mentore Kiarostami, il regista vuole dichiaratamente fare un cinema sociale che possa testimoniare una parte della realtà iraniana: un documento per i posteri, una fotografia dell’Iran nel suo periodo. Non ha mai fatto film all’estero, anche se, come svelo nel libro, aveva già dei contatti avanzati per un adattamento di Mille splendidi soli di Khaled Hosseini. Ma ha dichiarato sempre di voler rimanere nel proprio paese, a dispetto di tutte le difficoltà, proprio per trarre ispirazione dalla realtà che lo circonda.


A.M: mi ricollego alla definizione di cinema sociale, a cui alludevi, che Panahi ci tiene a rimarcare, sottolineando che il suo non è, invece, cinema politico. Ne parli spesso nel tuo saggio. È davvero così scontato riuscire ad evitare di sconfinare nella politica quando si fa un cinema sociale così acuto come quello di Panahi?

C.Z: Panahi, come già Kiarostami, che faceva in realtà un cinema più “filosofico”, non lancia un messaggio preciso alla fine del film, ma lascia una certa apertura nei finali, né tratteggia i personaggi come antagonisti o eroi. Sostiene che sia lo spettatore a dover fare le proprie valutazioni, senza messaggi preconfezionati consegnati dal regista; allo spettatore bisogna dare le chiavi per farsi un’idea propria. Il cinema politico, secondo lui, ha una data di scadenza e può servire, per esempio, per sostenere un candidato alle presidenziali. È successo in Iran qualche anno fa, quando fu realizzato un film, con la partecipazione di importanti registi, proprio per sostenere un candidato alla Presidenza della Repubblica Islamica. Panahi fa vedere la società ma non si schiera apertamente, con l’intento di lasciare allo spettatore la possibilità di costruirsi la propria opinione e lasciare un documento alle generazioni a venire, come nella tradizione del Neorealismo italiano.


A.M: il Neorealismo italiano ha ispirato tanto cinema iraniano. Per Panahi di che tipo di legame poetico possiamo parlare?

C.Z: se posso fare una digressione, c’è il Neorealismo poco successivo al 1945, che è una straordinaria fotografia della società dell’epoca; poi c’è lo  straordinario realismo degli anni ’60, anche in corrispondenza con i governi di centro-sinistra, che è  un po’ romanzato e che i critici dell’epoca, anche un po’ “tromboni”, hanno definito passaggio dal Neorealismo al Realismo, vale a dire un realismo critico che porta a una posizione politica chiara. Panahi in questo senso è più vicino al cinema neorealista della prima ondata, quello originario, e sostiene che il film che l’ha convinto a fare cinema sia stato Ladri di biciclette di Vittorio De Sica.


A.M: esternazione peraltro condivisa da frotte di registi da tutto il mondo, ispirati dallo stesso film.

C.Z: in particolare, per quello che con un’espressione sgradevole si chiamava terzo mondo, per indicare i Paesi non legati all’Occidente né al blocco sovietico, il Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague sono stati i due movimenti che hanno formato centinaia di cineasti.



A.M: altra caratteristica del cinema di Panahi è la riflessione sul cinema, ossia il cosiddetto metacinema. Ne parli sin dalle battute introduttive del tuo saggio e lo ribadisci nell’analisi delle varie opere. Fino a che punto è un elemento “nativo” della sua poetica e quanto, invece, risulta condizionato dalla necessità a cui l’ha costretto la condanna, una sorta di introversione nel cinema dal momento che non poteva lavorare nel mondo esterno?

C.Z: Panahi affronta il metacinema prestissimo, dal suo secondo film Lo specchio del 1997, che è già una riflessione critica rispetto all’esordio de Il palloncino bianco. Con Lo specchio Panahi si riallaccia a una tradizione che è un marchio di fabbrica del cinema iraniano del mondo, anche se in realtà è una tendenza relativamente recente, poiché prima del 1989 non ci sono film in cui il regista entri nel campo e si veda il set;  la tendenza si afferma, poi, in film come Close up o Sotto gli ulivi di Kiarostami, quest’ultimo con la collaborazione di Panahi, o Salaam Cinema di Mohsen Makhmalbaf, diventati famosi nel mondo. Panahi, da sempre legato all’insegnamento dei grandi registi iraniani, si ricollega a questo aspetto, ma mostra una situazione profondamente diversa da quella dei propri predecessori: mostra un’attrice che rifiuta il cinema. Non c’è voglia di cinema, dunque, bensì un rigetto, e questo la dice lunga sulla personalità di Panahi, una personalità ribelle che rifiuta le convenzioni. Poi abbandona il metacinema, ma lo riscopre attraverso la propria esperienza personale dopo la condanna: gli è proibito di mostrare il mondo esterno ma lo fa attraverso la propria esperienza personale. Anche questa è un’innovazione rispetto alla tradizione iraniana. La condanna è stata decisiva ma la cosa su cui bisogna interrogarsi adesso rispetto all’evoluzione della sua arte è che non sia stata una scelta di uno o due film: anche in seguito ha continuato a usare questo espediente. Ne dobbiamo forse concludere che sia voluto, ha capito che riesce a fare film abbastanza regolarmente e continua a concepirli con sé stesso al centro della vicenda. Certo, è anche un modo per mantenere l’attenzione su sé stesso e la condanna che ha subito, quindi un’ulteriore declinazione del proprio cinema sociale.


A.M: la tua analisi dei film si apre con il film che definisci “più influenzato dalle opere giovanili del mentore”, Il palloncino bianco, e si chiude con un film, dopo la morte di Kiarostami, ancora una volta legata all’opera del suo mentore. Come ritieni “regolati i conti” col suo Maestro? Possiamo parlare di un “parricidio riuscito”, con l’affermazione di un’identità fortemente personale?

C.Z: assolutamente sì. È noto, anche se non documentato (e quindi non l’ho messo nel libro) che a Kiarostami gli ultimi film di Panahi non piacessero: era un cinema troppo diretto per un regista così poetico come Kiarostami. Panahi è un regista diverso, anche se le strade dei due s’intrecciano, soprattutto in un film panahiano come Oro rosso con la sceneggiatura di Kiarostami, ma che non sarebbe mai stato un film così se l’avesse girato lo stesso Kiarostami. Panahi si emancipa ma mantiene una forte riconoscenza verso il regista che dichiaratamente lo ha più influenzato. Le ultime sperimentazioni di Kiarostami sono multidisciplinari, teoriche, internazionali, mentre Panahi compie scelte decisamente diverse e se ne distanzia.



A.M: In Oro rosso (2003) c’è il personaggio dell’iraniano di buona famiglia cresciuto in America che non fa altro che ripetere su Teheran: questa è una città di matti. Qual è il rapporto di Panahi con la metropoli, in cui a volte sembra far peregrinare i personaggi e di cui mostra immancabilmente il traffico?

C.Z: Panahi è figlio di padre dell’Azerbaigian iraniana, quindi di una delle tante minoranze etnico linguistiche dell’Iran, ma è sempre vissuto a Teheran. C’è un piccolo giallo perché lui dice in un’intervista di essere nato a Teheran ma che il padre sia corso a registrarlo a Mianeh, e tutte le fonti ufficiali indicano effettivamente Mianeh come luogo di nascita; nel libro spiego quindi che c’è la parola di Panahi contro quella delle fonti ufficiali. È legatissimo a Teheran e alla città, quindi innova la tradizione iraniana dei paesaggi rurali. Il traffico lo condiziona molto anche perché lavora con il sonoro, lo pone in primo piano: il traffico della metropoli è, anzi, un autentico marchio di fabbrica. In This is not a film, interamente girato nel proprio appartamento, ha inserito un personaggio che non vediamo che gli telefona e deve raggiungerlo ma non riesce perché c’è traffico; è riuscito, quindi, a far rientrare come il traffico di Teheran anche in un film interamente girato negli interni. Nell’ultima fase della sua produzione, poi, si sta aprendo a scenari centrifughi lontani dal proprio ombelico. Nonostante abbia girato un film nel proprio appartamento del Caspio, fuori Teheran ma sempre in casa, e il penultimo film Taxi Teheran nel traffico della capitale, l’ultimo Tre volti manifesta una ricerca delle radici e si avventura nei luoghi delle origini sue e della sua famiglia in Azerbaigian.



A.M: il tuo libro presenta una struttura classica per le monografie di cinema, dedicando la maggior parte dei capitoli all’analisi delle singole opere. C’è un capitolo, tuttavia, che sospende la sequela di analisi filmiche, e che s’intitola: “In arresto, condannato, giudicato (2009 – 2011)”: era inevitabile prendersi una pausa per spiegare, attraverso questo capitolo spartiacque, come il suo cinema sia divenuto, appunto, “di contrabbando”. Dopo la condanna, quali ritieni siano stati gli alleati principali di Panahi per evadere divieti e confinamenti? I festival, i colleghi, la tecnologia?

C.Z: direi che sono questi elementi che hai indicato tu. In This is not a film per tre volte dice di non voler coinvolgere gli altri registi perché ne sarebbero penalizzati e in alcuni casi è effettivamente successo a suoi collaboratori: ha dovuto addirittura oscurare i credits per non farli comparire. Ciononostante, soprattutto in corrispondenza dei primi arresti, la mobilitazione del mondo del cinema l’ha aiutato a superare quei momenti. In una lettera letta da Isabella Rossellini alla platea alla 61ma Berlinale 2011 dice ai registi di sognare per lui il mondo che non può sognare e di non vedere l’ora di vedere il mondo attraverso i loro film. C’è dunque una forte sintonia con il mondo del cinema e dei festival internazionali. Oltre a quelli che citavi, aggiungerei, soprattutto in Iran, l’elemento della pirateria, che Panahi avalla esplicitamente in Taxi Teheran quale modo per diffondere cultura in particolare quella fatta oggetto di censura. Purtroppo è a discapito degli artisti, ma Panahi la vede positivamente.


A.M: e la tecnologia, dicevamo: fotocamere di cellulari, memorie USB, videocamere digitali...

C.Z: la tecnologia l’ha aiutato tantissimo perché apparecchiature sempre più piccole, che vengono meglio nascoste, gli hanno consentito di girare in esterni, processo che preferisce di gran lunga alle riprese nel proprio appartamento. La tecnologia, inoltre, gli consente anche di non chiedere attrezzature al Ministero, secondo la prassi per l’appunto dell’Iran, e ciononostante di realizzare opere di sempre migliore qualità. Infine, la Rete gli consente di mostrerete i suoi film e di farli circolare non appena realizzati. I primi sono stati esportati in maniera rocambolesca, in seguito si è avvalso più agevolmente di file informatici...


A.M: le famose pennette usb con cui faceva arrivare i film nei festival e di cui racconti nel tuo libro.

C.Z: Sì. Già prima della condanna, peraltro, un film come Oro rosso era stato lasciato in una copia in Francia, così che quando gli è stato poi bloccato in Iran si è potuto affidare a quella copia lasciata lì. La sponda dei festival gli è stata generalmente fondamentale per mostrare i film secondo il director’s cut, senza dover cedere alle richieste di tagli da parte della censura. Poi, dopo la condanna per avere dei film proibiti a tutti gli effetti.



A.M: Hai parlato in precedenza del rapporto di Panahi con il realismo. Ti chiederei di completare il discorso, in riferimento a due interessanti notazioni presenti nel tuo saggio. La prima è che quando parli di Closed Curtain (2013), lo definisci “l’unico esempio di confronto del regista con l’onirico e l’immaginifico”. Era dunque così stringente il suo rapporto col realismo?

C.Z: non è facilissimo rispondere a questa domanda, perché si va quasi nel campo della semiologia: io sono un blogger, non un accademico! Più che sur-reale o onirico, direi che Closed Curtain è l’unica digressione di Panahi verso ciò che non è realistico. Per il resto la sua impostazione è di tipo realista e punta a mostrare la società. Il secondo livello intellettuale, oltre al realismo, non è tuttavia quello del sur-reale o dell’onirico, bensì il tentativo di riflettere su realtà e finzione, verità e menzogna. Tre volti, per esempio, inizia con un video che non sappiamo se sia vero o falso, se sia realtà o messinscena – anche se non è quello il centro del film perché il mistero si svela abbastanza presto. Altra declinazione di questo aspetto riguarda ciò che si può vedere e ciò che non si può vedere. Le ragazze in Offisde che sono fuori allo stadio mimano la partita; una di loro è riuscita a vederla e costruisce una scenografia nel recinto fuori allo stadio dove le ragazze sono confinate: con un sasso disegna il campo di calcio e racconta ciò che ha visto e che né loro né lo spettatore vede. È una tipica riflessione da cinema d’autore iraniano.


A.M: un’altra riflessione sul realismo è quella che in Taxi Teheran (2015) esprime attraverso il dialogo con la nipote Hana, chiamata a realizzare un corto per la scuola e molto confusa su quanto le hanno spiegato e prescritto: “dobbiamo far vedere la realtà, solo la realtà. Poi però se la realtà è troppo brutta, complicata o disdicevole, non bisogna assolutamente farla vedere. Come faccio? Non lo so, non ci capisco più niente adesso!” (p. 87). È il concetto che i censori chiamano di “sordido realismo”.

C.Z: l’impianto realista o neorealista di fondo dei film di Panahi è quello che viene malvisto dalle autorità iraniane e che genera problemi. Il cinema iraniano storicamente ha fatto vedere le stesse cose attraverso occhi bambini per evitare uno sguardo malizioso affidandosi allo sguardo innocente dell’infanzia. Panahi, dopo i primi due film con bambini protagonisti, ha poi fatto film sociali di realismo molto più diretto, quello che appunto i censori definiscono di sordido realismo, così come fanno Panahi e la nipote in Taxi Teheran. Lo fanno scherzosamente più volte per sottolineare l’assurdità della definizione, nel dialogo che riportavi dal film e dal mio saggio, in cui la nipotina fa finta di non capire il paradosso: far vedere la realtà, ma non farla vedere se troppo brutta. Qui Panahi si fa beffe dei proprio censori.


A.M: poco fa hai citato Offside, che tratta delle peripezie di un gruppo di donne che cercano di aggirare il divieto vigente in Iran di vedere partite di calcio per assistere al match decisivo per la qualificazione dell’Iran ai Mondiali contro il Bahrein. Racconti, riportando un post da Instagram, che un amico profilò a Panahi la possibilità che il film diventasse in futuro inattuale, con la rimozione del divieto, e Panahi rispose che sarebbe stata comunque una storia da rinfacciare agli autori di quelle limitazioni. Panahi si è preso il rischio di un film “a scadenza”, tu il rischio di un libro “in progress”, aperto, perché il regista è vivente e potrebbe avere una seconda, terza e quarta vita cinematografica. Come è nata l’idea di un saggio su un autore vivente?

C.Z: è vero. Io pensavo che già quindici anni fa Jafar Panahi meritasse una monografia a lui dedicata e da lettore appassionato di cinema iraniano, nonché di monografie, mi dispiaceva che non ci fosse. Possiamo quindi dire che il finale è aperto come nel cinema d’autore iraniano. Adesso Panahi ha già realizzato un episodio di un film collettivo che non ho ancora visto, ma per il momento il libro resta lì. Io scommetto che farà film molto interessanti anche in futuro, se ne avrà la possibilità; poi chissà, magari deciderà di voler fare un sacco di soldi e farà film scadenti. E visto che mi fai una domanda sulla scelta editoriale, vorrei ringraziare l’editore Davide De Lucca, che mi ha assistito e concesso molta libertà nella stesura del testo.


A.M: io ringrazio te per aver scritto il libro, che consiglio assolutamente ai nostri lettori.


SCHEDA LIBRO



Autore: Claudio Zito
Editore: Digressioni
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 4 settembre 2020
Pagine: 118 p.
EAN: 9788894493252


(Immagini: fotogrammi o dettagli di fotogrammi tratti dai film di Jafar Panahi. In particolare, immagine principale: This is not a film, con Panahi stesso e sullo sfondo un'immagine da Oro rosso; all'interno, nell'ordine, fotogrammi da: Il palloncino bianco, Oro rosso, Taxi Teheran, Closed Curtain. Si ringrazia la Digressioni Editore)

Antonio Maiorino


Autore
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