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RAPALLO (GE), 9 maggio 2011 - La bicicletta è viaggio, ed in quanto tale dovrebbe darti la possibilità di scoprire nuovi orizzonti, splendidi paesaggi, specie se lo fai attraversando l'Italia perchè sei un corridore del Giro.
Supponiamo si abbiano 27 anni, un cognome sconosciuto: non ti conosce nessuno nonostante tutta la tua vita l'hai passata a pedalare per qualcuno, a fare il gregario.
Non sei un capocannoniere bensì un finalizzatore; non sei un velocista degli ultimi metri ma “uno del treno”: per tutti non sei nessuno ma per la squadra sei qualcuno.
Vivere nell'ombra e mettersi al servizio del capitano che poi sale sul podio e si prende i complimenti, gli abbracci e stappa lo spumante.
Questo era Wouter Weilandt prima di lasciare su una lingua d'asfalto di una anonima discesina ligure la sua storia di gregario.[MORE]
Se pratichi ciclismo, le cadute fanno parte del gioco: un tempo, senza alcuna protezione alla testa, era quasi abitudine lasciarci le penne; poi la sicurezza è aumentata ma – inevitabilmente – capita di non riuscire a fare amicizia con la Fortuna.
E così vai lungo in curva, freni a tutta per non cadere nel fosso, sbatti contro un muretto e picchi per terra: una scena consueta, specie quando questi pazzi si lanciano a mille nelle volate di gruppo oppure vanno a novanta all'ora in discesa.
Basta poco, un nonnulla, e ti ritrovi con la schiena a pezzi, se ti va bene.
La tragedia di oggi ricorda – drammaticamente – quella di Fabio Casartelli durante il Tour de France del 1995: aveva vinto le Olimpiadi tre anni prima, si ritrova commemorato con una lapide sul Portet d'Aspet.
Quel giorno, la voce rotta dal pianto del telecronista Adriano de Zan fu l'unico sibilo in un pomeriggio di silenzio: Lance Armstrong sollevò le dita al cielo per dedicargli la vittoria, due giorni dopo.
Il gruppo in genere celebra un funerale laico: tutti in rigorosa fila, a passo d'uomo, nella tappa che segue la tragedia, sdrammatizzando così una sorta di presagio o – se vogliamo – senso di appartenenza al medesimo destino.
Chissà forse domani si ripeterà questo rituale o forse no. Poco importa, alla fin fine: resta il senso di impotenza dinanzi alla ineluttabile caparbietà del destino, abilissimo a scegliere prima di dare la possibilità di rendersene davvero conto.
Del ciclismo ci si ricorda quasi sempre per il doping, le autoemotrasfusioni, le perquisizioni o, al limite, per le storie tragiche di campioni finiti nel baratro: Simpson che si accascia sul Mont Ventoux in preda ad un mix di anfetamine o – più vicina a noi – la tristemente romantica ultima salita di Marco Pantani, morto il giorno di San Valentino, da solo, in un residence di Rimini dopo aver fatto sognare tutti, scattando in salita “per alleviare – come diceva – la sofferenza”.
In bici pedali da solo, rifletti da solo, immagini da solo. Certo, se corri per professione ti entra in tasca qualcosa e magari non ci pensi poi tanto alla bellezza dei luoghi che attraversi.
Ci sono dei momenti in cui – però – torna la dimensione individuale dell'uomo che si fa tutt'uno con la sua fedele compagna di viaggio, come quando sfogli le pagine di un libro o prendi la chitarra e inizi a suonare.
E' un dialogo tra sordi: anzi, tra un uomo e, se vogliamo, un qualcosa di inanimato, si dirà.
Beh, dipende. L'anima non ha un luogo apposito. La si crea, la si immagina, la si trasmette in qualcuno o in qualcosa.
La bicicletta pedala, come il cuore che batte.
Ciao Wouter. Che ti sia lieve la terra.
[foto da wikipedia.it]
Francesco Corallo