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ROMA, 1 AGOSTO 2012 – Quasi 30 mila chilometri quadrati di mare rischiano di dover ospitare trivelle per la ricerca petrolifera lungo le coste del nostro Paese. È l'allarme lanciato da Legambiente nel dossier “Trivella Selvaggia” che analizza i numeri e i rischi per il mare italiano derivanti dalle trivellazioni. Il dossier è stato realizzato in seguito all'autorizzazione rilasciata con il Decreto Sviluppo alle compagnie petrolifere per la costruzione di 19 piattaforme che serviranno alla ricerca di petrolio in mare. Piattaforme che andranno ad aggiungersi alle 9 già attive.
Il decreto, attualmente in fase di discussione in Parlamento, da un lato aumenta a 12 miglia dalla costa il divieto di trivellazione solo per le nuove concessioni, ma dall'altro fa ripartire i procedimenti autorizzativi che erano stati bloccati nel 2010 in seguito al disastro ambientale causato dall'incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. Le aree interessate corrispondono a oltre 12 mila Kmq di mare – se si considerano le piattaforme già esistenti e quelle alle quali è stata concessa l'autorizzazione – ai quali potrebbero aggiungersene altri 18 mila se venissero approvate anche le altre richieste di trivellazione presentate dalle compagnie petrolifere al ministero dello Sviluppo Economico.[MORE]
Secondo le analisi sviluppate da Legambiente in base ai dati del Ministero, nei fondali marini italiani sarebbero presenti circa 10,3 milioni di tonnellate di petrolio, che ai consumi attuali riuscirebbero a soddisfare il fabbisogno nazionale per appena 7 settimane. Se si considerano anche le riserve certe presenti nel sottosuolo nazionale, soprattutto in Basilicata, il fabbisogno petrolifero nazionale sarebbe soddisfatto in modo autosufficiente per 13 mesi. «Questi dati – sostiene Legambiente - dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive previsto nella nuova Strategia energetica nazionale prospettata dal ministro Passera, in cui uno dei pilastri sembra essere proprio la spinta verso nuove trivelle volte a creare 15 miliardi di euro di investimento e 25mila nuovi posti di lavoro». Ed è proprio il ministro Passera ad essersi guadagnato la “Bandiera nera” di Legambiente, «il poco ambito vessillo che consegniamo ai nuovi pirati del mare che mettono a rischio il futuro del mare e delle coste del nostro Paese».
Alle nuove concessioni di autorizzazione si aggiunge anche un incremento delle Royalties chieste alle compagnie petrolifere per le attività estrattive, propagandato come misura presa per la salvaguardia del mare, ma giudicato «irrisorio» dall'associazione ambientalista, poiché si passa dall'attuale 4% al 7%, mentre nel resto del mondo tali percentuali oscillano tra il 20 e l'80%.
NUMERI E LUOGHI
Ad oggi le piattaforme petrolifere in Italia sono 9 e interessano in totale 1.786 Kmq di mare. Sono presenti nell'Adriatico (2 nelle Marche, 3 in Abruzzo e 1 in Puglia) e nel Canale di Sicilia (3 nel tratto compreso fra Gela e Ragusa).
Ad esse andranno ad aggiungersi a breve le altre 19 piattaforme per la ricerca di petrolio, alle quali il Ministero dello Sviluppo Economico ha concesso i permessi autorizzativi e che interessano 10.266 kmq di mare: 11 nel Canale di Sicilia, 4 nell'Adriatico abruzzese, 2 in quello pugliese, 1 in quello marchigiano, 1 in Sardegna nel Golfo di Oristano.
Vi sono, inoltre, altre 41 richieste di ricerca ancora in attesa di valutazione presso il ministero che, se approvate, interesserebbero altri 17.644 kmq di mare: 2 nelle Marche, 5 in Abruzzo, 7 nell'Adriatico Pugliese, 9 nel Mar Ionio (tra Golfo di Taranto e Ionio Calabrese e Lucano) 18 nel Canale di Sicilia.
Un totale di 29.696 kmq di mare che potrebbero diventare luogo di trivellazione per la ricerca dell'oro nero. Un'area grande all'incirca quanto l'intera regione Sardegna. «Un quadro allarmante», secondo l'associazione ambientalista, «che rischia di ipotecare seriamente il futuro delle coste e del mare italiano e delle attività economiche connesse - a partire dal turismo di qualità e dalla pesca sostenibile - con rischi di incidenti che non vale la pena di correre a maggior ragione considerando i quantitativi irrisori presenti nei fondali marini italiani».
Immagine da www.ecologiae.com
Serena Casu