Torino Film Festival 41: Risi commuove con "Il punto di rugiada", Petzold di bravura con "Il cielo brucia"
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Nella giornata del 27 novembre, al 41esimo Torino Film Festival spiccano due ritorni di peso, entrambe fuori concorso: Marco Risi commovente con Il punto di rugiada, Christian Petzold tra commedia e mélo con Il cielo brucia. In concorso due drammi gelidi e a fuoco lento, il russo Grace e lo svedese Kalak
Grace di Ilya Povolotsky (119’, concorso lungometraggi)
Padre e figlia girano in camper alla periferia della Russia con le ceneri della madre defunta, portando il cinema nei piccoli villaggi tra le steppe della Georgia e qualche smercio da malaffare di materiale pornografico: “come faremo quando in questi posti arriverà internet?”, chiede la figlia. Lui è in effetti un po’ losco, ma protettivo; lei lo segue di malavoglia, ma s’ingelosisce se lui si prende una scappatella. Girano alquanto a vuoto, fino al coming of age della ragazza e a un potente gesto d’epilogo. Grace di Ilya Povolotsky ci fa la grazia del primo dialogo – stringatissimo – dopo quasi quattro minuti di piano sequenza circolare e svogliato. Questo l’umore di steppa del film: posato nello stile – con carrellate e zoomate ipnotiche – e laconico nelle comunicazioni verbali, spesso indolenti e fulminee. Paesaggi rannuvolati, animi pure. Gli orizzonti ampi in 16 mm si alternano con la claustrofobia del camper. Il fuori campo è usato spesso in maniera espressiva, lasciando in disparte i personaggi nel movimento controllato della macchina da presa. E in effetti per larghi tratti ci si sente un po’ fuori da questa storia di confine, tutta da capire scivolando più sulle tensioni che sulle poche parole. Un road movie senza mappa. Lo spettatore può godersi il viaggio o restarne disorientato. I critici si annoteranno il nome di questo esordiente classe ’87.
Il punto di rugiada di Marco Risi (112’, fuori concorso)
Due giovani – un viziato (Eros Pagni) e un pusher (Roberto Gudese) – si trovano a scontare un anno di servizi sociali a Villa Bianca, casa di riposo per anziani. Incrociando le storie dei vecchi – “si dice ospiti”, precisa il Direttore – impareranno un po’ dell’arte di vivere, ma si confronteranno con struggente malinconia anche con l’arte di morire. Il cinema di Marco Risi ha bisogno di un costante afflato morale e pedagogico per realizzarsi. Ne Il punto di rugiada lo spunto del ragazzo da convertire al buon vivere tramite i servizi sociali fornisce l’assist perfetto. Per fortuna non se ne fa facile didascalia, lavorando bene in superficie – con la leggerezza della commedia, anche stereotipata, sui clichés della terza età – ma anche in profondità, con slanci di poesia sull’autunno della vita. Nonostante qualche approssimazione – la storia d’amore tra il protagonista e l’infermiera – e qualche altra sbozzatura inespressa, alla fine ci si sente nevicare dentro. Soprattutto sui titoli di coda, che spiegano lo spunto sentimentale del film. Toccante storia sulle stagioni della vita.
Kalak di Isabella Eklof (125’, concorso lungometraggi)
Già premiato a Sen Sebastian, il film della regista svedese inizia con prologo shock, misurato nel minutaggio ma senza censure visive, del padre che abusa del figlio. Il racconto sarà la vicenda sofferta di quest’ultimo, Jan, che si fa una famiglia, ma resta tormentato dal trauma mai superato, trasferendosi in Groenlandia, diventando traditore seriale e infine volgendosi ai farmaci. Tragedie in agguato tra i ghiacci. Dramma gelido, spesso sussurrato ma prossimo a esplosioni, Kalak segue la zombificazione di un uomo in sofferenza, tra solitudine e redenzione. Non indifferente il senso di alienazione che deriva al protagonista danese dal trapiantarsi in Groenladia, dovendo aggiungere all’alfabetizzazione emotiva anche l’apprendimento di una lingua diversa. Ogni tanto le musiche amplificano il buio dell’anima. Il ritmo compassato, su oltre due ore, scioglie con lentezza e senso di liberazione le emozioni, dopo averle portate a ebollizione. Pesante, freddo e semisommerso come un iceberg.
Il cielo brucia (Afire) di Christian Petzold (103’, fuori concorso)
Giovani coetanei si allontanano da Berlino in cerca di pace e ispirazione: uno per creare il portfolio per la scuola d’arte, l’altro – scrittore – per la stesura del suo secondo romanzo. Nella casa tra i boschi, minacciata da un incendio indomabile nella non lontana Foresta Nera, accende il fuoco anche la presenza inattesa di Nadja (Paula Beer), vivace Marilyn di selva. Orso d’argento a Berlino, il film del regista tedesco ruota attorno al giovane scrittore un po’ orso (l'austriaco Thomas Schubert), tendenzialmente represso e col blocco delle emozioni più che con quello dello scrittore. Il suo non sarà un coming of age, ma un coming of novel: gli nasce dentro un romanzo, meglio della maturità. Bisognerà però attraversare il fuoco lento della stramba vacanza-lavoro, dove il clima di selva diventa clima di serra, chiuso in sé stesso, e l’aria attorno ai protagonisti si fa irrespirabile, anche per la pioggia di cenere dei vicini incendi. La leggerezza in riva al mare che brilla è quella della commedia, ma gli eventi sono scottantemente melodrammatici. Thomas Schubert sembra il Bandini, giovane scrittore in crisi, di Chiedi alla polvere di John Fante, ma sotto la direzione di Petzold, maestro della sua generazione, più che il cinismo americano c’è il romanticismo tedesco, temperato da una robusta ironia mitteleuropea. La situazione immerge, gli eventi coinvolgono – ma il protagonista resta troppo snob per l’empatia, nonostante la simpatica goffaggine. Bel mélange di toni, un Petzold di bravura.
(Nell'immagine principale: un'immagine da Il punto di rugiada; all'interno, prima immagine: una scena di Grace; seconda immagine: una scena di Kalak)