Strage di Piazza Fontana, 42 anni dopo: non c'è stata giustizia ma non svanisca la memoria
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FIRENZE, 12 DICEMBRE 2011- Era un pomeriggio dal classico clima natalizio quello del 12 dicembre 1969 a Milano. Le vetrine dei negozi erano addobbate a festa, con il via vai nella città più frenetico del solito. Anche in Piazza Fontana nella Banca Nazionale dell’Agricoltura si lavorava e si compievano commissioni. Alle 16.37 nelle zone limitrofe alla piazza si udì un boato. [MORE]
Qualcuno in lontananza azzardò l’ipotesi che si trattasse di qualche mortaretto o petardo sparato incautamente da qualche ragazzo, avvicinandosi Natale. Molti “signur” milanesi, tra le solite chiacchiere su tempo e calcio, udendo quel botto, scomodarono i cassetti della loro memoria rammentando una certa similitudine con i tristi e macabri rumori dell’ultima guerra. Altri, ancora, non si curarono dell’accaduto e continuarono le loro compere e conclusero le loro faccende.
Poco distante da Piazza Fontana, un uomo grondante sangue, con i vestiti strappati correva in totale stato di shock. L’orrendo puzzle si compose in pochi concitati minuti. C’è stata un’esplosione nella Banca Nazionale dell’Agricoltura. La primissima ipotesi è quella di una fuga di gas o lo scoppio di una caldaia. Sono supposizioni spontanee, figlie dell’ingenuità e dell’innocenza che un intero popolo, da allora, perse per sempre. Lo scenario sul luogo dell’esplosione fu raccapricciante, la sede fu praticamente distrutta: le urla dei feriti furono strazianti, il silenzio dei cadaveri assordante. Una strage. Non esistono altre descrizioni per presentare quanto avvenuto. I soccorritori e le Forze dell’ordine si trovarono di fronte a un’autentica carneficina.
Ben presto fu chiaro come non si fosse trattato di un incidente. A causare la morte di diciassette persone e il ferimento di altre 88 furono sette chilogrammi di gelignite compressi all'interno di una scatola di metallo assieme a un detonatore a tempo in una valigetta, collocati nella sala della banca. Ai funerali delle vittime parteciparono in modo commosso e composto, migliaia di milanesi oltraggiati dal vile attentato.
In quel maledetto 12 dicembre si verificarono altri attentati dinamitardi: una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala (l’ordigno fu fatto brillare, eliminando in tal modo un importantissimo elemento per le indagini). Una terza bomba esplose a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collegava l'entrata di via Veneto con quella di via di San Basilio della Banca Nazionale del Lavoro, ferendo tredici persone. Altre due bombe esplosero a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all'Altare della Patria e l'altra all'ingresso del museo del Risorgimento, in piazza Venezia, provocando il ferimento di quattro persone.
L’opinione pubblica italiana dell’epoca fu, a dir poco, sconvolta dalla strage. La pressione sulle autorità affinché i responsabili e gli esecutori fossero assicurati alla giustizia fu, comprensibilmente, notevole. Le indagini, sin da subito si concentrarono, sugli anarchici. Storicamente bombe e affini avevano fatto parte del loro piano sovversivo. Un indirizzamento fragile che tuttavia venne seguito in modo accanito.
Furono fermate per accertamenti circa 80 persone, in particolare alcuni anarchici del Circolo anarchico 22 Marzo (tra i quali figura Pietro Valpreda) e del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa (dove militava Giuseppe Pinelli). Il 12 dicembre l'anarchico Pinelli, venne fermato e interrogato a lungo in Questura. Il 15 dicembre, dopo tre giorni di interrogatori (il fermo di Pinelli era illegale: egli avrebbe dovuto essere libero, oppure in prigione, ma non in questura, infatti il fermo di polizia poteva durare al massimo due giorni).
Giuseppe Pinelli morì, precipitando dal quarto piano della questura di Milano. L'inchiesta giudiziaria, coordinata dal sostituto Procuratore Gerardo D'Ambrosio, individuò la causa del decesso in un "malore attivo", che provocò la caduta accidentale dell'uomo, che si era sporto troppo dalla ringhiera del balcone della stanza: l'autopsia non fu mai resa pubblica e fu accertato (ignorando la versione di Pasquale Valitutti) che il commissario Calabresi non era nella stanza al momento della caduta. Luigi Calabresi sarà assassinato nel 1972. Leonardo Marino, uno dei killer, pentitosi, confessò di aver partecipato insieme ad Ovidio Bompressi all'assassinio del commissario, indicando come mandanti dell’omicidio Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, in precedenza militanti e capi del movimento politico di Lotta Continua. Tutti i personaggi citati furono condannati. Gianfranco Bertoli, un controverso terrorista anarchico, sostenne che Calabresi fu ucciso per vendicare la morte di Pinelli.
Il 16 dicembre venne arrestato anche un altro anarchico, Pietro Valpreda. Un tassista Cornelio Rolandi riconobbe nell’anarchico l’uomo che era sceso nel pomeriggio della strage dal suo taxi in piazza Fontana, recante con sé una grossa valigia. Rolandi ottenne anche la taglia di cinquanta milioni di lire disposta per chi avesse fornito informazioni utili ma morirà, stroncato da un infarto, nel 1971. Valpreda fu interrogato dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio che gli notificò la responsabilità della strage. Le dichiarazioni di Rolandi apparvero, clamorosamente, poco plausibili. Sostanzialmente, secondo il tassista, Valpreda prese il taxi per risparmiare 20 metri a piedi, forse perché claudicante. Inoltre Valpreda avrebbe chiesto al tassista di attenderlo e in questo modo, avrebbe dovuto ripercorrere all'inverso i 110 metri (non avendo, però, più con sé la valigia).
Fu prospettata anche la bizzarra ipotesi che il tassista non si fosse sbagliato, ma che sul quel taxi il pomeriggio del 12 dicembre salì un “sosia” di Valpreda, tale Antonino Sottosanti, un legionario, con simpatia per l’estrema destra, detto “Nino il fascista”.
Stranezze e misteri, che costelleranno l’intera vicenda. Negli anni la matrice neofascista della strage apparve sempre più marcata. I militanti “neri” Franco Freda e Giovani Ventura vennero arrestati. Con loro finì in manette anche Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo (organizzazione extraparlamentare di estrema destra), su mandato del procuratore di Treviso, con l’accusa di ricostituzione del partito fascista, e per l’implicazione nella strage di Piazza Fontana. Nel giugno 2005 la Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità di Freda e Ventura nella strage. Il giudizio ha, però, valore di sola condanna morale e storica, in quanto i due imputati erano già stati assolti irrevocabilmente dalla Corte d'Assise d'Appello di Bari. Incriminato anche Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, poi assolto per non aver commesso il fatto.
Si iniziò ad usare quella cupa espressione: strategia della tensione. Con questo termine ci si riferisce alla volontà dello Stato e dei poteri forti di instaurare un clima di paura nell’opinione pubblica, al fine di giustificare reazioni estreme da parte dello Stato. Quest’ultimo, secondo la teoria della strategia della tensione, avrebbe appoggiato azioni terroristiche di destra e di sinistra con l’intento di destabilizzare la democrazia italiana e rendere la posizione degli apparati statali “deviati” preminente nella vita politica e sociale della nazione. La strage di Piazza Fontana si configura nella lunga e oscura stagione degli anni di piombo.
Le indagini e ben sette processi si susseguiranno negli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e di estrema destra. Il processo, da Milano, fu trasferito a Catanzaro, per motivi d’ordine pubblico. La decisione trovò la protesta dei famigliari delle vittime. Per loro al danno si aggiunse la beffa di un lungo e dispendioso viaggio in Calabria per poter assistere al processo e ottenere giustizia. Tuttavia alla fine tutti gli accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria. Non è mai stata emessa una condanna definitiva per la strage. L’inquietante ombra di apparati statali coinvolti nella strage aleggiò sull’intero caso tra l’indignazione generale. Alcuni esponenti dei servizi segreti furono condannati per depistaggi. L’inchiesta del giudice Salvini presentò anche un'ipotesi di connessione col fallito golpe Borghese dell’anno successivo. Misteriosa la figura dell'agente Z, Guido Giannettini, giornalista di destra e importante membro dei servizi segreti italiani. Chiamato a rispondere della strage fuggì prima in Francia e poi in Argentina, nel 1974 si consegnò all'ambasciata italiana di Buenos Aires.
A metà degli anni novanta il neofascista Carlo Digilio, che ha goduto della prescrizione del reato nel 2000, dichiarò la sua corresponsabilità nella strage e di aver ricevuto in confidenza da Delfo Zorzi, militante di Ordine Nuovo, la sua ammissione nell’aver collocato personalmente l’ordigno nella banca. Zorzi, si trasferì in Giappone nel 1974, dove ebbe molto successo nel mondo dell’imprenditoria. Ottenne la cittadinanza giapponese che riuscì a garantirgli l'immunità da ogni vicenda giudiziaria. Il Giappone infatti ha sempre rifiutato le richieste di estradizione da parte dell’Italia.
Un rebus incredibile di arresti e scarcerazioni, di condanne e assoluzioni. Sulla lungaggine e le controversie dell’odissea giudiziaria tutta Italia ha espresso più volte il proprio sdegno e sconcerto. Oggi, in questa triste ricorrenza, vogliamo ricordare le vittime di quella immane strage: persone che ebbero il tragico destino di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Un’azione vigliacca e atroce spezzò le vite di diciassette innocenti e segnò, irrimediabilmente, l’esistenza dei superstiti e dei famigliari delle vittime. Il nostro omaggio avverrà nel modo più semplice e solenne, invitando i lettori a pronunciare con rispetto i nomi di quelle vittime. Si chiamavano: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Vittorio Mocchi, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silvia, Attilio Valè, Gerolamo Papetti.
Davide Scaglione