Sallusti, i perchè della condanna di un direttore
L'esperto risponde Toscana

Sallusti, i perchè della condanna di un direttore

giovedì 27 settembre, 2012

Pisa, 27 settembre 2012 - Alessandro Sallusti da ieri sera può essere definito un pregiudicato. Una sentenza definitiva lo ha condannato a 14 mesi di reclusione. La notizia potrebbe anche sembrare ordinaria, in fondo i condannati illustri per “crimini” più o meno gravi non sono certo una novità. Ma in questo caso è proprio il reato a fare la differenza, a suonare stonato ai più.

Un reato che nella norma penale ha un nome inquietante ma al tempo stesso dai contorni sfumati e opinabili: diffamazione aggravata e omesso controllo. Nel 2007, Sallusti era direttore del quotidiano “Libero“ e comparve un articolo a firma di un certo “Dreyfus” intitolato “Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita”, in cui si raccontava la vicenda di una tredicenne di Torino che, rimasta incinta, era stata costretta ad abortire su disposizione di un magistrato.[MORE]

La Cassazione, nella sua sentenza,  ha stabilito che non era veritiera la coercizione rappresentata dal giornalista nei confronti dell’adolescente, a conclusione di una causa nata per la querela sporta dallo stesso giudice, ritenutosi diffamato dal contenuto dell’articolo. Si tratta a ben vedere di una condanna per interposta persona del direttore, in quanto l’autore dell’articolo era rimasto celato dietro lo pseudonimo.

Oggi ( ma proprio oggi-oggi che l'interessato lo ha ammesso) si sa che l’autore del pezzo fu Renato Farina, giornalista radiato dall’Ordine e attualmente deputato del Pdl, ma ormai la causa penale ha fatto il suo corso e la responsabilità dell’articolo è ricaduta tutta su Sallusti, in qualità di direttore responsabile al momento della pubblicazione. Un paradosso? Da più parti si ritiene di sì, e la percezione che sia stata commessa una ingiustizia in nome della legge, stavolta è bipartisan.


Perché sia avvenuto tutto ciò ha una ragione molto chiara: i reati dell’informazione in Italia siano ancora strutturati sulle disposizioni previste dal Codice Rocco, nel 1930 quando in Italia il potere era detenuto da un dittatore, la radio era qualcosa di vagamente élitario e internet sarebbe potuto apparire in sogno solo ai più fantasiosi. Mentre i parlamentari si impuntano su interminabili questioni e beghe di basso conio, le leggi più bisognose di limature e integrazioni, dettate dall’evoluzione democratica del nostro Paese, rimangono lì ad aspettare che qualcuno si ricordi di esse, anche per decenni. Nel frattempo, rimangono in vigore così come sono e la loro applicazione acritica, come per legge, porta a casi quali quello del dimissionario ( dopo la condanna) direttore del "Giornale"

Rafafele Basile


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