Quell'aria tossica e pesante che fomenta il Terrorismo: e' anche Razzismo
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ROMA - Recentemente il Razzismo è balzato agli “onori” della cronaca, ed è ormai da tempo che siamo tornati a respirare un’aria tossica, un clima pesante, che nuovamente torna a considerare la pelle giusta o sbagliata, per stare al mondo e sentirsi di questo mondo.
Un razzismo strisciante o dichiarato in fin dei conti sono figli della stessa vergogna, quella utilizzata da leader politici, da mezzi di comunicazione di massa e social, che incitano - e non dovrebbero- all’odio per una manciata di voti ed un più languido consenso, meschino e feroce.
L’odio, la xenofobia è risaputo che manifestano la propria presa in molteplici insospettabili forme, in modi diversi di esplicarsi e manifestarsi: c’è un razzismo dichiarato da benpensanti, c’è quello degli ipocriti perbenisti, coloro che credono di intercettare il male negli scontri apocalittici di civiltà, negli scontri tra culture diverse; c’è in coloro che ignorano di poter ricondurre la comprensione delle differenze, a radici culturali che per quanto diverse si assomigliano sempre tutte.
Nella questione però con tutta evidenza, è sempre bene non smarrire il senso del razionale, ed è più facile che fare ricorso ai palliativi retorici che compiacciano l’ego smisurato di una popolazione mondiale profondamente immersa ancora nell’infanzia della propria storia sull’apartheid.
Non è bastato un presidente di colore a redimere le macchie, né a fermare i potenti ronzii che destabilizzano i valori di giustizia ed uguaglianza per l’intera comunità dei neri. La verità è forse che siamo ancora in molti, troppi a non saper abbracciare e accogliere i colori dell’umanità; e l’argomento continua a restare un tabù e prevale ancora una visione manichea eterodiretta, che arma i tifosi militanti, in un senso o nell’altro, annebbiati da cortine fumogene che ancora a distanza di lustri di storia, accrescono fratture e rompono equilibri, già peraltro precari.
Il gioco è presto fatto: un “divertissement” che disegni un’ontologia storico-filosofica della disputa. E’ risaputo che nelle classi elitarie per lo meno quelle preindustriali aristocratiche, la dialettica sulla questione razziale - per quanto incredibile- non fu mai violenta in senso moderno, ma piuttosto opportunistica.
C’è stata un’epoca organizzata per ordini e gerarchie, che ha fatto dei diversi (xenos) una ragione di opportunità sociale; ma erano i tempi rigidi ed immobili in cui retaggi e lignaggi erano espressione di una nobiltà feudale che presupponeva l’importanza del principio di disuguaglianza. Era il tempo della società tripartita con bellatores (cavalieri combattenti) oratore (monaci preganti), laboratores (servi contadini) , che sia pure attraverso uno spiccato senso -diremo oggi - antidemocratico, interpretava in senso apicale la propria organizzazione sociale, senza alcun bisogno di difendere la propria superiorità.
Era il tempo in cui si sapeva come offrire legittima rappresentazione mitologica tradizionale al principio dell’eredità, di classi sociali rigidamente organizzate in senso verticistico, la cui posizione elitaria di riferimento in sé era il ruolo ed il privilegio su quel volgo per l’appunto “volgare”. Potere del danaro e titoli ereditari dell’aristocrazia feudale, prima, poi interpreti di interessi mercantili e corporativi di borghesi desiderosi di giungere ad arricchirsi oltre ogni irragionevole misura, per sedimentarsi socialmente forse ancora per produrre differenze ed accendere sperequazioni, più che per vendicare il bisogno e la necessità di acquisirne sovranità e legittima cittadinanza alla giustizia.
Nel contrito risentimento dei vinti e nella malsana invidia sociale ad aspirare a giustificare una posizione di potere, ovvero quella della difesa dei diritti inalienabili rintracciabili nelle “gloriose rivoluzioni” che pur tante miserrime meschinità hanno prodotto, in termini di vizi, mali ed ipocrisie, si applicano i corsi ed i ricorsi storici; il corso della storia infatti ci ha fatto assistere all’attuale trionfo dell’Homo oeconomicus, un prototipo di uomo, vulnerabile e precario , che indossa sovente la maschera della fratellanza democratica, per difendere i propri danari, frutto di sacrifici sempre algidi, che nella logica del capitale, trovano fugace ed instabile, persino la memoria e la consapevolezza o piuttosto la convinzione che è l’iniquità la fonte della propria sussistenza.
C’è infatti un sistema di benessere per una fetta della società occidentale, che è giunta ad avere come sua base lo sfruttamento sempre di qualcun’ altro, che siano le risorse o la manodopera poco importa, spremuti tutti quanti dall’iniqua logica invasiva del capitale, di cui allo stato odierno non vi è alcuna soluzione di risoluzione.
In fin dei conti non abbiamo fatto altro che incardinare il razzismo a vecchie nuove superstizioni del nuovo millennio. Abbiamo contribuito tutti a diffonderlo per buona pace della nostra tranquillità, applicata in ragione del non voler rinunciare all’identità sociale del nostro piccolo/grande benessere.
Penso che il nostro mefistofelico timore d’impoverirci tutti economicamente, di essere derubati dei nostri privilegi da occidentali, rappresenti la prima vera assoluta forma di terrorismo in fieri; è questa la nostra necessità ingorda: succhiare il nettare del nostro tronfio nutrimento, ad essere rappresentativa dell'attuale situazione che ci impedisce di dismettere il nostro obsoleto atteggiamento neocolonialistico terzomondista, tutto questo assicura garanzie al nostro assurdo tenore di vita, e per difendere la nostra pseudo idea di uguaglianza, ipocrita e borghese, ostentiamo la quantificazione dell’unica vera religione da contrastare più di ogni altra: quella del nostro vero dio denaro, con la mercificazione di ogni cosa possibile, attraverso lo sfruttamento dell’inferiore di turno.
La realtà dei fatti, forse è tutta racchiusa nella grande mole di disinformazioni e false conoscenze, servite senza o con filtri, che accuratamente ci preoccupiamo solo di “personalizzare” con stereotipi ed idiozie di tanto ad un chilo, pur di ottenere informazioni a nostro uso e consumo, come a guardare attraverso una lente molto deformata, che diventa invece uno specchio opaco.
E’ così più facile annebbiare o confondere visioni morali, idee con criticismi a buon mercato, pur sempre validi se ad uso e consumo di personali, solide e radicate convinzioni, che naturalmente contemplano il male sempre dall’altra parte dello steccato, asservito com’è alla necessità di apparire, senza però alcun bisogno di costruire una dialettica del pensiero e dell’analisi.
Viviamo in un tempo in cui vecchi e nuovi “buonismi" avanzano nella pura essenza del qualunquismo, facendo l’occhiolino sia all’olio di ricino, che all’analfabetismo più cupo; si avverte capillarmente la necessità di esprimere ed esprimersi, più attraverso l’inconsistenza che altro; sovente si interviene in discussioni e dibattiti, per dare voce a un caleidoscopio di opinioni, che riflettono la frammentazione individualizzata di piccole grette visioni del mondo, tali da rendere visibili e robuste solo le premesse ad un dibattito sempre amaramente superficiale ed inconsistente.
Questa è l’epoca del più cupo solipsismo, in cui sembriamo avvolti da una specie di “infanzia infelice” della nostra più cupa e bieca ragionevolezza, e non ci vuole molto a capirlo, è sufficiente individuare le ragioni assolutistiche magari quelle razziste di alcuni di noi, per renderci conto che l’odio avvolge e plasma ogni più banale o insignificante gesto verso gli altri, allora proprio allora in quel preciso istante, è più facile imbattersi nella diffusa cecità e nella convenienza del mutismo, anche se abbiamo sotto gli occhi i caporali della raccolta dei pomodori o degli agrumi, se ci troviamo di fronte ai nuovi schiavi del lavoro pagati una miseria, per nobilitare la fatica e lo scarso valore di nuovi moderni “fantasmi” arroccati in baracche fatiscenti, e senza spazio per nulla, senza un posticino per i sogni e un futuro da rilanciare e riuscire a fare decollare.
Invitare a “Stringere i denti” pensando che magari “non sarà per sempre” assolve talvolta le cattive coscienze di quanti non hanno sentore del nuovo apartheid che sta uccidendo i sogni e banalizzando le sofferenze, di uomini, donne e bambini che ci rifiutiamo di riconoscere come esseri umani.
Camminare liberi per le strade senza che nessuno dica dove potere o non poter passare, fu uno dei sogni di Nelson Mandela che aveva resistito così tanto in carcere, per affermare la sua lotta, oggi penso che il pensiero di un giovane sudafricano, resta ancora quello di voler vedere la fine delle discriminazioni della contemporanea segregazione razziale, quella dei ghetti delle città in cui guardi con sospetto e paura, chi si siede accanto a te sull’autobus o in metropolitana.
Perché c’è ancora chi odia il colore diverso della pelle degli africani o quello degli indiani, dei rom e dei disperati; le mattanze insensate per il colore della pelle ritornano ancora, come un tempo, a popolare le nostre cronache vicine e lontane; è costante il sentore di un passato e di una storia che aleggia per riproporre il razzismo nelle sue mirabolanti moderne forme anche virali.
Gramsci disse di odiare gli indifferenti, in tempi molto simili ai nostri, personalmente trovo l’indifferenza all’odio per lo straniero, un modo molto codardo e vigliacco di esibire la post-modernità, forse semplicemente perché stiamo tutti ripercorrendo un passato razzista, che nutre un presente desolante, in cui ritroviamo solo l’indifferenza per i diritti umani.
Basta dare un occhio a fb, ogni giorno sono descritte in poche righe di commenti o negli editoriali di articoli giornalistici vergognosi, le armi pericolose ed ignobilmente tediose di razzismi striscianti, di un’ignoranza assassina che può uccidere e torturare a nostra insaputa, perché veicola odio e discriminazioni.
Francamente non voglio abituarmi ad esternazioni e titoli razzisti urlati con ogni mezzo per manipolare e destabilizzare la verità della differenza, nella diversità, non tollero neanche le battute politicamente scorrette e gli articoli “perbenisti” scritti da persone “insospettabili” che parlano, criticano ma che poi affermano il proprio sciovinismo per civiltà superiori, di un occidente moderno, contrapposto a selvaggi di diversa provenienza.
Non mi rassegno ad una storia recente che si sta edificando sul razzismo, di cui tutti dovremmo avvertire l’imbarazzo e la vergogna quando non abbiamo il coraggio di riconoscere e combattere, il solco dell’ignominia tracciato sulla pelle del diverso.
Io non dimentico che l’Italia sa essere razzista e perbenista in un sol fiato: Mussolini scatenò “italiotamente” una guerra tra le più assurde del novecento quella contro un’Etiopia pacifica, attraverso una allucinante campagna razzista, che ebbe modo di ripercorrere intatti gli stereotipi dell’Africa, da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. [MORE]
Ultimamente non mi sono stupita di riascoltare scoraggianti vecchie canzoncine fasciste, fischiettate con falsa eleganza, sulle strade di qualche pidocchioso marciapiede metropolitano, vi ho ritrovato tutti i riferimenti alla violenza contro l’altro, in cui ci sono ancora identici gli echi della pseudo moderna, nuova visione colonialista, attraverso i bei tempi andati, quelli di un nostalgico e miserevole tempo che fu (viva iddio), in cui almeno Lui avrebbe saputo come risolvere il “problema” degli sbarchi. A questi falsi perbenisti ricordo che gli elementi della conquista Etiopica, fischiettata con nostalgica disinvoltura da tanti, molti, troppi, è oltraggiosa, offensiva, lesiva della dignità dei diritti umani.
E’ bastato ai miei orecchi ascoltare un fischiettare incauto, per recuperare alla memoria gli Stornelli neri nei quali veniva detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. Nel Povero Selassié, invece, i camerati cantavano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”. Del resto gli antichi razzismi dei fascisti non erano risparmiati neanche nelle canzoni per bambini, in quelle canzoncine come Topolino va in Abissinia, in cui c’era un Topolino fomentatissimo che voleva menare le mani e uccidere tutti, imbrattare le sue appendici da topo, con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino, dichiarava candidamente, che “appena avrebbe visto il Negus si sarebbe impegnato a servirlo ironicamente a dovere, se fosse stato nero lo avrebbe fatto diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli bastava, Topolino avrebbe voluto massacrare tutti, avendone un motivo ben preciso, spiegato ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non era l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti pensa anche all’altro genitore “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”.
E’ risaputo che la libertà è il bene più nobile e più autentico che un uomo possa avere, oggi l’odierna società, pur affermandone il valore supremo, ha finito per travisare il senso autentico della libertà degli individui, finendo così per travolgere per dirla con le parole di Hobbes, come “assenza di ogni impedimento” in cui si ha la piena possibilità di agire, anche a danno di qualcun altro.
Voglio pensare che non sia del tutto smarrito nell’uomo contemporaneo, ed in modo particolare nelle nuove generazioni, un forte desiderio di mutare rotta, di rinnovare l’idea stessa di libertà: una libertà colorata, cioè per tutti, che tende a essere illimitata e in virtù di ciò non si piega a leggi inique né a ogni genere di norma che assume la discriminazione come artificio.
Perché (fatto salvo il beneficio del “santo” dubbio) dovrebbe vigere sempre il beneficio della solidarietà, per intervenire inusitatamente sempre in contemporanea all’opportunismo del buonsenso, specie in politica.
Ci sono infatti giovani, assetati di esprimersi e di svincolarsi da regole imposte dal sistema, a loro mi preme rivolgere l’oggetto di questa mia rarefatta riflessione, sono tanti di loro il vero bersaglio dei facili fanatismi ed integralismi in corso; attraverso azioni meramente egoiste, dettate non dalla necessità, ma dal piacere di varcare i limiti imposti, e dall’altra dallo slancio verso la libertà come virtù ideologica, quella libertà illimitata, sovente sproporzionata, che suo malgrado corre il rischio di finire sempre per annichilire i concetti di bene e male con la conseguenza che alla fine è impossibile distinguere entrambi, uccidendo l’idea stessa ed il valore del concetto di libertà in sé.
Un po' come accade al personaggio Stavrogin, il “demone” per eccellenza, partorito dalla mente geniale di Dostoevskij, personaggio intorno al quale ruota tutto il romanzo “I demoni” è un personaggio Giovane, intelligente e straordinariamente bello, che finisce per attrarre a sé uomini e donne della nobiltà russa. E’ bello come solo il male sa esserlo, intriga, seduce e finisce col distruggere chiunque entri in contatto con lui. Stavrogin è il superamento stesso dei limiti umani, riesce a raggiungere quello stato di libero arbitrio, ergendosi al di sopra del bene e del male e vi riesce così bene, che finisce per non discernere le due parti: che ai suoi occhi si confondono, diventando la medesima cosa. Ma il suo cuore diventa sterile, arido come il deserto. Quella libertà illimitata lo consuma. Corrode l’animo e si tramuta in forza distruttrice, scatenando il demone sopito. Ignora completamente ogni limite, ogni valore, ogni norma, finendo per dissacrare e violare tutto: la sua scelleratezza raggiunge l’apice nel momento in cui viola l’innocenza di una bambina. Il giovane rampollo, quasi preda di un pentimento, inizia a confessare i suoi misfatti, tentando una tardiva assoluzione. Quello che maggiormente lo tormenta è la violenza fatta alla bambina. “L’innocenza esercita sui perversi un attrazione speciale, essi che non sono puri, provano un indicibile piacere a profanarlo”. Stavrogin è gelido, racconta il crimine con lucidità, nelle sue parole non c’è rimorso o pentimento. La piccola subisce passivamente, dopo però sta male, soffre, avverte di aver perso qualcosa di prezioso. In preda ai sensi di colpa si impicca in un ripostiglio.
Stavrogin è li che osserva, capisce le intenzioni della piccola ma non fa niente, per impedire la sua morte. Il ricordo di questo atto mostruoso non gli da pace. Cerca la redenzione, ma la sua confessione appare fiacca e piena di contraddizioni. Il pentimento e il rimorso non sono limpidi. Finisce solo per trovare compiacimento nell’autoumiliazione e nell’autodegradazione. Il suo animo è vuoto, incapace di provare qualunque sentimento: la redenzione, non soltanto appare lontana ma addirittura diventa impossibile. Non vi sarà possibilità alcuna di salvezza per lui.
Stavrogin differentemente da Raskolnikov (Delitto e castigo) per il quale la fede si rivela essere fonte di salvezza e di rinascita spirituale, con un ultimo atto titanico si toglie la vita, l’ultimo gesto di sfida di un giovane, distrutto dal proprio libero arbitrio.
Analizzando sotto questa luce il “demone”, Dostoevskij delinea con magistrale precisione l’impossibilità per l’uomo di spingersi oltre i limiti a lui imposti. Lo scrittore mette in guardia; la libertà arbitraria che sfocia inevitabilmente nella totale mancanza di morale e nell’indifferenza per ogni valore. Libertà non significa vivere senza norme. La stessa trova un limite, quando si scontra con la libertà altrui. “Tutto al mondo è perfetto, tutto è innocente meno che l’uomo” ed è per questo che necessita di leggi, della morale e perché no, anche di Dio.
Questo Stavrogin lo sa bene, ma non riesce ad accentarlo, o meglio, non vuole, ecco perché trova più onore nella morte piuttosto che scontrarsi con la realtà e prendere atto dei propri limiti.
I limiti forse, sono proprio quelli ai quali ciascuno dovrebbe saper guardare, è questa la vera arma ideologica che si dovrebbe brandire davanti al nemico, nel nostro piccolo/grande mondo, nelle nostre prospettive, nei nostri sogni, nei “destini generali” che si incrociano inesorabilmente anche con le vite degli altri.
Dovremmo concepire perciò nuovi strumenti per comprendere l’alterità, e attraverso l’altro, ripensare ad affinare nuove diverse prospettive, senza cadere oggi più che mai, preda di un "autismo superbo e terrorizzato", che non sembra dare segni di reazione alle mutate circostanze del mondo. In fin dei conti menti vuote e corpi disagiati, fanno più comodo al male che al bene, per essere riempite dall’ideologia, pronti a farsi esplodere, falsificando tutto il “giocattolino ermeneutico” che irretisce la produzione di materia prima che alimenta i terrorismi.
Angela Maria Spina