ROMA, 22 FEBBRAIO 2012 - Un terzo della ricchezza nazionale. È quanto vale l'economia sommersa nel nostro Paese, con cifre stimate tra i 400 e i 500 miliardi di euro l'anno, di cui almeno 170 miliardi sono gli introiti derivanti dalle attività malavitose in senso stretto. È quanto emerge dall'analisi “Economia sommersa, legale, illegale e criminale”, presentata lo scorso 20 febbraio al Senato dagli autori Giorgio Ruffolo, Elio Veltri e Luigi Zanda. Il documento, per la cui realizzazione sono state utilizzate fonti “aperte”, cioè documenti ufficiali, pubblicazioni e inchieste giornalistiche, evidenzia in che misura sia diffusa l'economia “non direttamente osservabile” analizzando le sue due componenti, secondo la terminologia utilizzata da Onu ed Eurostat: «l'economia sommersa legale» (illeciti relativi ad attività economiche di per sé legali) e «l'eonomia illegale e criminale» propriamente detta (cioè relativa ad attività economiche proibite dalla legge e ai proventi che derivano da attività criminali).[MORE]
Al primo gruppo, cioè alla cosiddetta “economia sommersa legale” appartengono, ad esempio, l'evasione fiscale e gli illeciti in materia di lavoro. L'Istat ha stimato che l'evasione fiscale annua si aggira su cifre comprese tra i 255 e i 275 miliardi di euro, pari al 16-17% del Pil, anche se uno studio realizzato un anno e mezzo fa da Confindustria ha stimato che nel 2009 le percentuali di evasione fiscale abbiano superato il 20% del Pil. Un aumento notevole anche in termini percentuali rispetto a qualche decennio fa, se si considera che, secondo le analisi condotte all'epoca, nel 1981 era pari a 7-8 punti di Pil. Tra le modalità più diffuse di produzione di economia sommersa, oltre alla mancata emissione di ricevute fiscali e fatture, all'esportazione di capitali e alle false fatturazioni, rientra anche il “sommerso di lavoro”, cioè la mancata osservanza della normativa previdenziale e giuslavorista. Ad esempio, aziende che lavorano completamente in nero, aziende che hanno dipendenti che lavorano in parte in nero, aziende che indicano valori diversi al fisco e ai lavoratori per salari e stipendi dei dipendenti. Attività illecite non prive di risvolti sul sistema economico, se è vero come afferma Bankitalia che la conseguenza più immediata è «la riduzione delle entrate dello Stato, il quale a sua volta dovrà decurtare i servizi pubblici ovvero aumentare la pressione fiscale, riducendo ulteriormente l’incentivo a permanere nell’economia legale. Il sommerso – afferma Bankitalia - contribuisce al non corretto funzionamento dei mercati di beni e servizi e del lavoro, introducendo una distorsione della concorrenza all’interno del paese e tra i paesi e favorisce i legami tra attività criminali e attività legali. Nuoce ai lavoratori coinvolti, che rimangono privi di protezioni».
C'è, tuttavia, un'altra notevole porzione di sommerso, relativa ai proventi delle attività economiche criminali e mafiose, stimati intorno ai 170 miliardi di euro l'anno. In altre parole, “Mafia Spa” è «la prima azienda italiana per fatturato e utile netto». A ciò si aggiunga un patrimonio di beni consolidati stimato intorno ai 1000 miliardi di euro. «La loro confisca – scrivono i tre autori del documento – risolverebbe il problema del debito pubblico». Se si considera che le attività economiche criminali e mafiose non sono limitate a particolari regioni d'Italia, ma sono estese in tutto il territorio nazionale e hanno «invaso l'Europa», si comprende come per contrastarle non ci si possa limitare alle legislazioni dei singoli stati nazionali, ma è necessario attuare iniziative a livello europeo e mondiale. Una particolare attenzione dovrebbe essere rivolta, a livello comunitario, alle iniziative di contrasto al riciclaggio di denaro sporco (in gran parte derivato dal traffico di stupefacenti), il quale «trova nei paradisi fiscali, spesso irraggiungibili, i luoghi adatti per le transazioni e il lavaggio in modo che possa entrare nel circuito dell’economia e della finanza legale». Si è calcolato che le società off-shore presenti nei paradisi fiscali sono 680 mila, oltre a diecimila banche. A ciò si aggiunga la presenza di sistemi bancari paralleli che operano al di fuori dei sistemi ufficiali e che, quindi, sfuggono ad ogni controllo. Risulta pertanto evidente che «senza interventi europei e mondiali sui paradisi fiscali, a cominciare dalla rottura delle relazioni economiche e finanziarie e da embarghi finanziari, limitati per ora alle buone intenzioni e alle affermazioni di principio nei meeting dei capi di governo, non si va da nessuna parte».
Serena Casu
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