Pillole di Storia della Repubblica italiana: Antonio Segni, amor patrio e 'Piano Solo'
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ROMA, 15 APRILE 2013 - Allo scadere del settennato di Gronchi nessuno, o quasi, vede di buon occhio una sua rielezione. Accarezza certo l'idea il Presidente dell'Eni Mattei, al quale hanno enormemente giovato le manovre 'amiche' del vecchio Presidente, in un connubio inestricabile di politica e potere dai contorni spesso poco chiari. Così, convocato il Parlamento, è tempo di tornare di nuovo alle vecchie strategie quirinalizie, in un quadro poco o per nulla mutato.
Altro giro, altra corsa per la Dc, che per l'occasione se ne inventa una nuova: "le candidature parallele e non divergenti" di due dei suoi, Antonio Segni e Giuseppe Saragat. Almeno questa volta però- è la prima nella storia della Repubblica- il candidato ufficiale degli scudocruciati riesce a spuntarla nell'assemblea plenaria: al nono scrutinio- non erano comunque mancati, evidentemente, i franchi tiratori- viene eletto quarto Presidente della Repubblica proprio Antonio Segni. È il 6 maggio 1962. [MORE]
Il pedigree di questo nobiluomo sardo- la famiglia è ascritta al patriziato dal 1752- è di tutto rispetto: militante sin da giovanissimo nel Partito d'Azione cattolica e nel Ppi di don Sturzo, si distingue negli anni neri del duce per una ferrea linea di opposizione, fino a che, intenzionato a non voler scendere ad alcun compromesso con gli uomini del Fascio, si allontana dalla politica per qualche anno.
Tutto promette bene, insomma. Senonché, e questa è una storia davvero sentita mille volte, il Parlamento entra in un terribile stallo e, nulla, ma proprio nulla, sembra poter risolvere la situazione, che va peggiorando di giorno in giorno. L'impasse politico in questione- un classico sempre verde della politica italiana, a dir il vero- è generato dalla crisi del governo Moro, apertasi nel torrido giugno del '64. Un mese di fermo istituzionale, con la tensione che ristagna a Palazzo e con lo spauracchio di un'infiltrazione da destra a spezzare ulteriormente i passi all'accordo Dc- PSI. Il Presidente non sa che fare. Si tormenta questo vecchio signore mingherlino, che pure reca sulle spalle anni e anni di viva militanza.
In questa crepa, umana prima che politica, va ad insinuarsi, con scaltro funambolismo, l'ambigua figura del generale Giovanni De Lorenzo, ex partigiano e ora comandante dell'Arma dei Carabinieri. È lui che, convocato a Palazzo, presenta al Presidente quello che è passato alla storia come il "Piano Solo", un piano- il solo- che avrebbe potuto salvare l'Italia, ridandole un governo solido e illustre. Una vera e propria strategia golpista che prevedeva l'individuazione e il conseguente trasferimento in una base Nato della Sardegna di 731 uomini politici e sindacalisti di sinistra, il presidio alla Rai, l'occupazione dei principali giornali, l'intervento militare in caso di manifestazione. Da qui nasce la leggenda del Presidente golpista che così tanto stona con quell'immagine che Antonio Segni consegna alla memoria degli italiani nel giugno del '64: un uomo in lacrime alla parata militare per l'anniversario della Repubblica.
Negli anni in tanti lo assolvono, da Giorgio Galli a Indro Montanelli: Segni, non è stato un dirottatore, ma un uomo solo, per troppo tempo abbandonato al logorio di una scelta decisiva. La sua indecisione, il suo tentennare non sembrano il premeditato tentativo di rovesciare uno Stato; sembrano piuttosto il frutto di un amore patrio viscerale, devastante. Per questo vien da pensare a quel passo della Costituzione in cui si legge- ed è quasi un urlo d'amore- "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino".
Ci aveva provato il cittadino Segni a mettere in pratica questa norma imperante. Nel modo sbagliato, certo, fallendo, certo. Ma di lui rimane intatto il fotogramma, poetico e tragico, di un uomo solo, fragile. Di un uomo costretto da una trombosi cerebrale a rassegnare le dimissioni dopo soli due anni di permanenza al Colle. Ė il 6 dicembre 1964.
Emmanuela Tubelli