"Our democratic boys"/2. L'importanza di chiamarsi democratici
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TRIPOLI, 29 NOVEMBRE 2011 - Ai tempi del golpe in Nicaragua del 1934, il presidente americano Franklin Delano Roosvelt, che vedeva in Anastasio Somoza - autore del golpe e più volte presidente nicaraguense - come una fonte di stabilità politica nella regione (in particolare per il suo anti-comunismo) definì gli autori del golpe come dei "figli di puttana", sottolineando, però, come quelli fossero i "nostri" (degli americani, ndr) "figli di puttana".[MORE]
Una cosa molto simile si potrebbe dire per quanto concerne i rivoltosi del Consiglio nazionale di transizione libico (Cnt), macchiatisi - come vedremo in questa seconda parte della "contro-inchiesta" (la prima potete leggerla qui) - di vari reati che l'Occidente, se commessi dai suoi "nemici" non avrebbe remora a definire "violazione dei diritti umani". Nonostante questo, però, i ribelli vengono disegnati dai media mainstream come i portatori di una nuova "democrazia". Insomma, per quanto macchiatisi di linciaggi, torture e impiccagioni, rimangono sempre i "nostri democratici ragazzi"
L'apartheid libico. Un'altra domanda che sarebbe bene porsi, anche alla luce del modus operandi occidentale, che un giorno crea un “amico” e il giorno dopo lo proclama “terrorista” (bastino in tal senso i nomi di Manuel Antonio Noriega e Saddam Hussein), è cercare di capire a chi stiamo regalando – ed in futuro venderemo – le armi. Perché quello che ci viene raccontato dai media mainstream, per cui ci sarebbero i cattivi (cioè i “lealisti” fedeli ad al-Gaddafi) contrapposti ai “buoni” (i “ribelli” del Cnt) è una semplificazione per la quale, probabilmente, storcerebbero il naso anche gli ideatori di favole per bambini. Comitati e personalità indipendenti – come la giornalista Lizzie Phelan – così come fonti considerate autorevoli dall'Occidente come Amnesty International parlano infatti di una storia diversa. Anche troppo.
Se è vero – come dicevamo all'inizio – che uno dei simboli con cui la caduta del regime libico sarà ricordata è la pistola d'oro con cui, stando alla ricostruzione ufficiale, è stato ucciso al-Gaddafi, un'altra delle immagini che caratterizzeranno questo conflitto ci porta dritti a Tawergha, una cittadina di circa 30.000 anime a qualche decina di chilometri da Misurata, conosciuta per essere diventata una vera e propria città fantasma dopo quello che qualcuno chiama “il genocidio dei neri”.
Come riporta il Wall Street Journal, non certo un giornale facilmente accusabile di “complottismo”, capi ribelli come Ibrahim al-Halbous parlarono fin da subito del “repulisti etnico” che ci sarebbe stato a Tawergha, dove le scritte pro-Gheddafi sui muri sono state presto sostituite da frasi come «siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri». La colpa dei tawerghiani è stata quella di rimanere fedeli ad al-Gaddafi, per il quale erano andati ad arruolarsi.
È del 30 settembre l'inchiesta sugli accadimenti di Tawergha che fa l'organizzazione indipendente Human Rights Investigation. «I tawerghiani sono stati demonizzati e disumanizzati, descritti tutti come “lealisti”, anche quando si trattava di semplici lavoratori», dice il report. Conferme arrivano anche da Amnesty International, le cui denunce – a fine agosto – parlano di persone che non possono tornare nelle proprie case per paura di essere arrestati o di subire stupri ed esecuzioni da parte dei “ribelli”.
«Prima che la rivolta iniziasse» - scrive l'ong nel suo rapporto “The battle for Libya. Killings, disappearances and torture” - «in Libia si trovavano tra 1,5 e 2,5 milioni di cittadini stranieri, molti originari di paesi dell'Africa sub-sahariana, inclusi Burkina Faso, Etiopia, Eritrea, Ghana, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan. Molti provenivano dai paesi vicini della fascia nord-africana, altri dal sud est asiatico. Alcuni erano arrivati alla ricerca di migliori condizioni di vita in Libia o in Europa, altri scappavano da conflitti o persecuzioni».
«I combattenti ribelli ed i loro supporters hanno rapito, detenuto arbitrariamente, torturato ed ucciso membri delle forze di sicurezza accusati di essere fedeli ad al-Gaddafi, catturato soldati e cittadini stranieri erroneamente sospettati di essere combattenti mercenari pro-Gheddafi», è l'inizio del capitolo nel quale Amnesty analizza nel dettaglio gli abusi delle forze di opposizione.
Linciaggi. «Nei primi giorni della rivolta, gruppi di contestatori hanno ucciso molti soldati e sospettati mercenari ad al-Bayda, Derna e Bengasi. Alcuni sono stati picchiati fino alla morte, almeno tre sono stati impiccati, ed altri sono stati uccisi dopo che erano stati catturati o si erano arresi. Alcuni sono stati presentati come “mercenari africani”, ma la loro identità non è stata accertata».
Il report si concentra sul caso – venuto fuori dalle interviste ai residenti fatte dagli inviati dell'ong – avvenuto a Derna il 22 febbraio, quando un militare è stato impiccato ad un ponte pedonale, seguito da altri 15 omicidi perpetrati durante la notte e la mattina successiva nel villaggio di Martubah, a sud-est di Derna. Ad al-Bayda, un uomo di carnagione nera che indossava l'uniforme della polizia degli insorti ma presentato come “mercenario africano” è stato prima linciato dai ribelli e poi preso dall'ospedale (dove evidentemente era stato ricoverato) ed impiccato. Non è chiaro, sostiene Amnesty, se sia stato ucciso dall'impiccagione o fosse già morto.
Vendette. Khalifa al-Surmani, ex membro dell'International Security Agency (un'agenzia d'intelligence accusata di aver commesso alcune tra le peggiori violazioni dei diritti umani sotto al-Gaddafi) e padre di sei figli, è stato trovato morto il 10 maggio nella periferia a sud-ovest di Bengasi. Lo hanno ucciso sparandogli un colpo in testa. Aveva mani e piedi legati ed una sciarpa molto stretta intorno al collo. Il polpaccio destro presentava una evidente asportazione di carne, ed i segni sulle ginocchia indicavano che era stato in ginocchio. Tranne che per il polpaccio – forse un tentativo di tortura – la dinamica indica chiaramente un'esecuzione. «Un cane tra i cani di al-Gaddafi è stato eliminato» è stato scritto con il suo sangue. In questo modo, continua Amnesty, sono stati uccisi almeno altri otto membri dell'agenzia, anche se molte famiglie vittime di queste vendette non hanno voluto denunciare, per paura di rappresaglie e di essere stigmatizzati come “anti-rivoluzionari”.
Detenzioni. La Sa'adoun Secondary School e lo Zarouq Cultural Center sono stati utilizzati dai ribelli per tenere in arresto centinaia di individui, compresi civili, accusati di “sovvertire la rivoluzione”. Tutti i detenuti ed ex detenuti intervistati a Bengasi e Misurata - continua il report di Amnesty - non hanno mai visto mandati di arresto o altri documenti che rendessero legali le detenzioni. In molti casi, anzi, gli arresti sono sembrati molto più simili a dei rapimenti, compresa la difficoltà di identificare i gruppi che eseguivano l'arresto, spesso formati da uomini mascherati e con veicoli non identificabili.
Torture ed altri maltrattamenti. Lo Zarouq Cultural Center in particolare, è ancora il report ad evidenziarlo, sarebbe stato trasformato in una sorta di “Esma” (la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina utilizzata durante la dittatura degli anni Settanta come centro di detenzione illegale e tortura), con torture (tra le quali percosse sul corpo, anche nudo, con cinture, calci di fucili e tubi di gomma) e stupri utilizzati come strumenti per estorcere confessioni, “legalmente” accettate attraverso firme apposte sotto minaccia. Un soldato delle forze di al-Gaddafi sarebbe stato attaccato nel cuore della notte mentre era in cura, sotto detenzione, all'Hikma Hospital di Misurata. Ci sono state denunce dell'uso del Taser, dispositivi considerati armi da difesa che fanno uso di elettricità e che, pur essendo considerati “meno che letali” - è la stessa Amnesty International a denunciarlo – negli Stati Uniti ha fatto 334 vittime tra il 2001 ed il 2008.
Certo, non era – e non è – credibile che il Cnt combattesse la propria guerra con mazzi di rose rosse invece che con gli Ak-47 o i lanciarazzi, ma dando per vere le varie ricostruzioni sui crimini del regime gheddafiano capire quale sia la differenza con il nuovo regime diventa molto difficile. Così come non è credibile – ma non lo era fin dall'inizio – che il motivo per cui si è deciso di “uccidere il re” fosse solo la voglia di instaurare la democrazia. La Libia non è l'Egitto, insomma. A questo punto, però, rimane un'ultima domanda a cui cercare risposta. Perché? Sarà proprio a questa domanda che tenteremo, domani, di dare una risposta con la terza ed ultima parte di questa "contro-inchiesta".
(2 - Continua)
Andrea Intonti