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NAPOLI, 14 APRILE - Colpevole. Non Jafar Panahi, arrestato il 2 marzo 2010 per la partecipazione ai movimenti di protesta contro il regime iraniano, rilasciato a seguito della mobilitazione delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e del mondo del cinema a livello internazionale, infine condannato il 20 dicembre 2010 a 6 anni di reclusione. [MORE]
Colpevole non lo è davvero. Colpevole, semmai, è il ritardo con cui arriva in Italia un’opera di qualità come “Offside”, premiato con l’Orso d’Argento al Festival di Berlino del 2006. Merito del supermarket di fuoriclasse dell’ultima Berlinale, dove il film è stato riproposto e Bolero ha deciso di acquistarlo, insieme a "Medianeras”, diretto dal regista argentino Gustavo Taretto.
Non che l’Italia sia disattenta alla vicende del regista iraniano, a cui Linea d’Ombra-Festival delle Culture Giovani di Salerno dedica proprio oggi due proiezioni speciali fuori concorso. Già in precedenza il mondo del cinema italiano si era mobilitato (manifestazione del 28 febbraio a Roma), mentre risale addirittura al 30 maggio 2010 l’anteprima nazionale, a Firenze in apertura del festival “Goal! Storie di calcio, storie di vita”.
Dall’8 aprile è nelle sale italiane “Offside”, e sarà pure il caso, una buona volta, di parlare del Panahi artista, ché nonostante l’assoluta necessità di tutelarne la figura in nome dei diritti umani, Pindaro richiede pur sempre il proprio tributo. E lo stesso regista, d’altronde, s’immagina abbia molto da dire col proprio sguardo penetrante sul mondo, dietro la cinepresa.
Anche se, invero, scindere il discorso socio-politico da quello artistico non è esattamente agevole. La visione di un film come “Offside” dà immediatamente ad intendere perché la figura di Panahi possa riuscire indigesta al regime iraniano. Il film racconta delle donne che soffrono di mancanza di calcio in Iran: in senso sportivo, non bio-chimico. Alle donne iraniane è fatto divieto di entrare negli stadi: troppi uomini e troppe bestemmie, il santino di Allah non va sgualcito. "Offside" è dunque la storia di una ragazzina che s’ingegna per vedere allo stadio la partita della nazionale iraniana contro il Bahrein, match decisivo per le qualificazioni mondiali. Finirà presto in un recinto di sicurezza, insieme ad altre tifose. Meglio: tentate tifose. L’Iran vince, la nazione esulta. Ma è unita?
Un’ora e mezzo di film con ragazze che frignano il tifo represso, architettano travestimenti improbabili per entrare allo stadio, simulano azioni di gioco che non vedranno mai se non da clandestine, non possono lasciare indifferente lo spettatore del Bel Paese, di là della frivola empatia della passione calcistica.
“Offside” è strutturato sul piano visivo per immergere fisicamente in situazione, con un uso accorto del piano sequenza e del montaggio, tale da creare una perenne immagine latente. La macchina da presa segue i personaggi dando la sensazione di un “fuori campo” sempre gravido, di un frame clandestino lasciato in disparte, così come l’oggetto della stessa narrazione per immagini: una partita che in centomila vedono, ma non le protagoniste. Lo spettatore esperisce costantemente immagini celate, ora attraverso la frustrazione del match vietato, ora per via del panico dei militari che fanno da guardia alle ragazze, sempre pronte a fuggire. È una sorta di “cinema in fuorigioco”, che totalizza l’esperienza visiva con un uso accorto del “non mostrato”.
Così, ad esempio, la scena in cui una guardia dello stadio accompagna una delle “prigioniere” al bagno dei maschi, dovendo allo stesso tempo tenere d’occhio la ragazza ed impedire che altri maschi ne rilevino la presenza alla toilette. La pellicola sembra farsi troppo piccola per assecondare tutte le situazioni in contemporanea, ed allo spettatore come alla guardia la ragazza finisce per sfuggire.
La pari opportunità negata alle donne iraniane diventa impossibile pari opportunità del cinema, costretto alle limitazioni del campo, ma non per questo decurtato: anzi, fertilmente reinventato nelle proprie congenite costrizioni. Il cinema ha le sue catarsi, la realtà no: l’esplosione finale di gioia non può far dimenticare che non tutti hanno partecipato al gioco.
ANTONIO MAIORINO