NBA: Melo sposa la Grande Mela
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NBA: Melo sposa la Grande Mela

lunedì 28 febbraio, 2011

NEW YORK, 28 FEBBRAIO - Doveva essere la settimana dei botti finali per il mercato NBA 2011, vista la trading deadline (una specie di stop al televoto del basketmercato) fissata per giovedì, e in effetti fuochi pirotecnici ce ne sono stati, alcuni previdibilissimi (uno su tutti), altri più sorprendenti. Per capire se si tratti invece di mosse lungimeranti degli agenti di mercato, delle società e degli stessi giocatori, occorrerà aspettare qualche mese, almeno.[MORE]

Partiamo dalla notizia più attesa, quella che monopolizzava i dibattiti fra addetti ai lavori e non solo nel pittoresco mondo della pallacanestro d’oltreoceano: dopo un flirt durato tanti, troppi mesi, alla fine Carmelo Anthony (l’ultimo pezzo da 90 fra i free agent con aspirazioni di cambiare aria o addirittura Conference) si veste di blu-arancio, pronto a far sognare gli esigenti tifosi dei Knicks.]

Ma a che prezzo? Altino, secondo gli esperti del settore. Sì, perché i Denver giustamente non erano intenzionati a fare benificenza e così per scambiare il loro diamante hanno preteso un’adeguata contropartita, tradotta nei nomi di Raymond Felton, Timofey Mozgov, Wilson Chandler e Danilo Gallinari, ossia quattro titolari del vecchio quintetto dei New York e soprattutto quattro giovanissimi di belle speranze.

Tutti contenti? Più o meno. Di sicuro contento è Melo, che già da tempo aveva palesato la sua preferenza per giocare al Madison Square Garden, tanto da rifiutare il primo accordo raggiunto dai Nuggets con i Nets. Eccitati sono i suoi nuovi tifosi, che bramavano famelici un altro idolo da osannare. Soddisfatti sono i Denver, che hanno ringiovanito il roster, puntando nettamente sul futuro della franchigia.

Ma allora chi è rimasto deluso, o quanto meno dubbioso sulla bontà dell’affare? Bè, ad esempio il capo allenatore dei Knicks, tale Mike D’Antoni, che si era speso parecchio per dare un’identità ad una squadra presa in mano mentre andava desolatamente alla deriva, quasi irrimediabilmente affondata dalle discutibili scelte tecniche del vecchio coach Isiah Thomas, silurato addirittura sotto forti pressioni del presidente della Lega David Stern, stanco di veder deturpare con tale insipienza un patrimonio storico come i New York.

Ed invece adesso D’Antoni si ritrova con due prime donne come Stoudemire e Antony (tutto da esplorare il loro feeling), ma senza più una squadra. E, paradosso dei paradossi, si vocifera che la vera mente occulta di questa trade sia stato un consigliori d’eccezione, attualmente allenatore della derelitta (cestisticamente parlando) Florida International University, che gode dell’incomprensibile privilegio di avera ancora influenza sulle capacità decisionali di Donnie Walsh, general manager dei Knickerbockers: impossibile a credersi, ma si parla ancora una volta di Isiah Thomas.

Stavolta però Stern ha preferito non mettere bocca, forse troppo occupato a dipanare una matassa molto più incombente come il lock out che minaccia la sua Lega per la prossima stagione (ma questa è un’altra storia, su cui torneremo prossimamente).

Risultato:
- al Madison si grida “Melo! Melo!”, ma in realtà la squadra continua a navigare fra bassi (come la sconfitta contro i Cavs, i più scassati della Lega) e alti (vedi la vittoria di stanotte contro i Miami, guidati dalla regia ispirata di Chauncey Billups, inserito anche lui nella suddetta trade e costretto a malincuore a salutare la sua Denver, dove avrebbe volentieri terminato la carriera: a ben vedere però, il vecchio e saggio play è uno dei pochi a parlare il d’antoniano e potrebbe quindi essere una vera malgama fra allenatore e spogliatoio);
- al Pepsi Center di Denver rispondono “Who needs Melo?”, rincuorati dalle incoraggianti prestazioni degli ultimi arrivati: 30 per il Gallo alla sua seconda uscita con la nuova maglia.

Quali nuove invece dai cugini meno nobili dei Knicks: nemmeno i New Jersey Nets sono rimasti a bocca asciutta, garantendosi infatti le prestazioni di Deron Williams, messo frettolosamente sul mercato dai Jazz nella loro disperata corsa verso l’armageddon che ha sconvolto Utah nelle ultime settimane. I tifosi non si erano ancora abituati all’addio del coach storico della franchigia, Jerry Sloan (dimessosi per incomprensioni con lo stesso Williams), che nell’arco di una convulsa notte hanno dovuto ritirare fuori i fazzoletti per piangere un altro abbandono, quello del leader dello spogliatoio: un salomonico suicidio senza precedenti per la dirigenza.

In questa giostra un po’ impazzita di scambi, c’è anche chi ha preferito il percorso inverso: da est verso ovest. È il destino del centro dei Boston, Kendrick Perkins, finito a rinforzare gli Oklahoma City Thunder: serviva un uomo di peso per aiutare i giocatori più atletici ed esplosivi di tutta l’NBA, ma ancora un po’ leggerini per gli standard imposti dai tabelloni d’oltreoceano; e così il geniale Sam Presty (general manager dei Thunder: scuola Spurs, in poco tempo è riuscito nell’impresa di plasmare una formazione composta da soli giovani, con tanto talento ed eccezionale abnegazione) ha optato per questo ragazzone ventiseienne che mette paura solo a guardarlo. Se riuscisse ad integrarsi in fretta potrebbe essere una pedina importante già in vista dei play-off di quest’anno, dove la coppia Durant-Westbrook rischia di essere davvero la pallattola impazzita ad ovest: nell’ultima settimana i Thunder hanno incontrato tre squadre di prima fascia, ossia Spurs, Magic e Lakers; il bilancio è negativo, con tre sconfitte su tre, eppure in tutti e tre i casi, hanno dimostrato che nella post-season quasiasi avversario dovrà sudarsi il passaggio del turno, magari in una imprevedibile sfida sette.

A dir poco frustrati invece i senatori dei Celtics, che di colpo vedono ridimensionate le loro ambizioni per la rincorsa al titolo: basti pensare che l’anno scorso, durante la finalissima con i Los Angeles, Perkins si infortunò e praticamente fu il colpo da ko per i Boston, che non seppero ammortizzare la sua assenza. La dirigenza ha preferito liberarsi di un problema d’ingaggio (il contratto del centrone andava rinegoziato), puntando tutto sul recupero degli O’Neal (Jermaine e Shaquille, entrambi infortunati), ma di fatto deve mettere in conto la reazione irritata di gente come Pierce, Garnett e Allen, che guardano la loro carta d’identità e sanno che non possono permettersi di rischiare se vogliono mettere un altro anello al dito prima di appendere le scarpette.

Ancora pochi dati che giungono dal campo:
- ad ovest dominano sempre i San Antonio, ma i Lakers sono in ripresa, con quattro vittorie di fila uscendo dal weekend dell’All Star. A proposito, sornioni sul mercato i losangelini: che stiano aspettando convergenze migliori per portare allo Staple gli ultimi crack in grado da soli di sovvertire gli equilibri di una squadra (facile pensare a Dwight Howard e Chris Paul);
- parlando di Howard, sfuriata davanti alle telecamere da parte di Superman, dopo la prova svogliata dei compagni nella sconfitta contro i poco accreditati Sacramento Kings: finalmente Dwight mette da parte il sorriso pacioccone che lo contraddistingue dentro e fuori dal campo, per assumere le vesti talvolta cerbere di leader. Il messaggio pare venga recepito forte e chiaro: vittoria convincente contro i Thunder, condita con 40 punti del Superman imbronciato.
- ad est invece balbettano gli Heat, che arricchiscono in maniera preoccupante il loro bilancio di sconfitte contro le squadre destinate ad arrivare ai play-off. Bruciante soprattutto la debacle a Chicago, dove la differenza la fa il sistema di gioco: da una parte i Bulls si muovono da squadra, dall’altra i Miami si affidano ai singoli. Ma, a dispetto del blasone dei singoli (che sia Wade o James), alla fine è sempre la coesione del gruppo che porta alla vittoria (perfino due individualisti come Jordan e Bryant hanno cominciato a vincere quando hanno compreso l’importanza di essere ecumenici, a volte…). 
 

 


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