Milan-Barcellona: il Diavolo soccombe alla dittatura azulgrana
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MILANO, 25 NOVEMBRE - Questo è il calcio: una squadra perde tre a due in casa, gettando alle ortiche la possibilità di arrivare prima nel girone di Champions League e viene applaudita da tutti per la partita e per aver perso uscendo a testa alta.
Più che “questo è il calcio”, avremmo dovuto cominciare con “questo è il calcio del 2011, il calcio del Barcellona”. Il perché è presto detto: la dittatura blaugrana è ormai talmente radicata nella cultura del movimento pallonaro internazionale che anche giocarsi una partita fino al novantesimo, a viso aperto, e solo “rischiare” di non perdere sono cose che assomigliano ad una vera e propria impresa.[MORE]
Per capire fattivamente il perché di questa abissale differenza tra il Barca e tutto il resto del circus, basta analizzare le formazioni di mercoledì sera: il Milan ha inseguito per mesi questa gara, e ha basato su questa il recupero dei suoi infortunati, e quindi il riutilizzo della sua formazione tipo.
I ragazzi di Guardiola si sono invece presentati con assenze pesanti per infortunio (Dani Alves e Iniesta) ed improvvise ed inattese defezioni per scelta tecnica (Piquè, Pedro e l’appena recuperato Sanchez confinati in panchina). Quella che sarebbe stata una vera e propria ecatombe tecnica per tutto il resto delle squadre del continente non ha nemmeno fatto il solletico agli azulgrana, che con uno schieramento inedito (Puyol, Abidal e Mascherano in difesa, Keita, Fabregas, Xavi, Busquets e Thiago a sostegno dei soli Messi e Villa) hanno letteralmente dominato la partita, sciorinando il solito calcio di possesso, sovrapposizioni, movimento e improvvise quanto mortifere verticalizzazioni.
Il Milan, anche sfortunato nell’andare sotto con l’autogol del comunque inguardabile Van Bommel, ha saputo rimettere in piedi la partita solo con improvvise fiammate dei suoi campioni: il gol di Ibrahimovic e soprattutto la perla di Boateng sono conseguenza di estemporanei momenti di forcing rossonero, immersi però in mezzo al dominio territoriale totale degli uomini di Guardiola. Il 2-2, replay dell’andata, sarebbe stato un altro capolavoro di tenacia e grinta: ma se Messi indovina col pallone il corridoio più stretto e remoto, sapendo di trovare pronto Xavi al gol, allora c’è poco da fare.
E qui non si tratta di moduli, di stili di gioco o di qualche diavoleria particolare. Qui parliamo di una vera e propria differenza culturale, che parte dai primi calci dei pulcini, che giocano esattamente come Messi e compagni, e che finisce in un team dove se sbagli il passaggio sei il primo a pressare il giocatore avversario che l’ha preso in possesso, insieme a qualche tuo altro compagno immerso in un ritmo infernale. Se poi aggiungiamo a questa politica da sogno una fioritura di campioni assoluta (Messi, Xavi e l’assente Iniesta come punta dell’iceberg di una generazione senza pari, e tacciamo di gente come Fabregas, Puyol e Piquè) e che, soprattutto, pare non avvertire l’incedere del tempo e sforna gente con una continuità impressionante (e in quest’ottica si pensi a Thiago, titolare a San Siro a soli vent’anni e a Jonathan Dos Santos, entrato nella ripresa, ventunenne e già tredici volte nella Nazionale messicana). E in tutto ciò, c’è il resto del calcio, che va avanti e vede questi signori vincere coppe e campionati come se fosse niente, interrogandosi su quanti anni ci vorranno per raggiungerli.
Questo è il calcio del 2011, il calcio del Barcellona, e le sconfitte onorevoli sono il meglio che ti puoi permettere. Tutto il resto, poi, è solo azulgrana.
Alfonso Fasano