Intervista ad Ana Rocha de Sousa, Leone del Futuro di Venezia77: dolore e bellezza, vi spiego Listen
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Intervista ad Ana Rocha de Sousa, Leone del Futuro di Venezia77: dolore e bellezza, vi spiego Listen

domenica 4 ottobre, 2020

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Listen di Ana Rocha de Sousa: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Non se lo aspettava, Ana Rocha de Sousa, di vincere il Leone del Futuro e il Premio della Giuria di Orizzonti a #Venezia77 col film Listen. Lo rivela la commozione delle foto ufficiali, lo ribadiscono le parole dell’intervista che ci concede sulla sua opera prima. La cineasta portoghese, a dispetto del profondo istinto artistico – si è laureata a Londra in Belle Arti – chiaramente riscontrabile nello stile visivo di Listen, decide di realizzare il film per un'urgenza prima di tutto sociale, allorché si accorge, con sconcerto, degli incubi in cui possono piombare certe famiglie prese di mira dai servizi sociali: basta un labile indizio per mettere in discussione il nucleo e separare i figli dai genitori – così funziona, o malfunziona, il sistema inglese, entro quella cultura che Ana ha vissuto da straniera, ai tempi della scuola di cinema. Madre anche lei, ha partorito in Portogallo; ma che ne è di quelle coppie straniere che sono ancora là? Conosciute un po’ di storie, decide dunque di girarci un film; e lì, l'artista non può tacere: anche nell'estrema concentrazione sul soggetto, il codice espressivo di Ana Rocha de Sousa diventa trasparente nella qualità del design di ogni immagine.


LA TRAMA


Periferia di Londra: macché grigia, è bellissima negli occhi di Lu (Maisie Sly), una bionda e dolcissima bambina sorda, figlia di una coppia portoghese trapiantata in Inghilterra con i tre figli. La madre, affaccendata, si chiama Bela (Lucia Moniz); il padre, Jota (Ruben Garcia), lavoricchia, disegna, dà una mano in casa. Nel complesso i conti non quadrano – peggio ancora quando l’apparecchio di Lu si rompe e bisogna riacquistarlo. La grana vera diventa però un’altra: per un malinteso, i servizi sociali si convincono che le condizioni in cui vivono i bambini sono preoccupanti. Inizia una battaglia legale, e sembra – anzi, è proprio così – che la famiglia portoghese e la burocrazia inglese parlino due lingue diverse.


PERCHÈ INNAMORARSI DI LISTEN

Bello nell’involucro visivo, approfondito nel merito sociale, ribollente nelle emozioni, Listen di Ana Rocha de Sousa è un dramma familiare raccontato con raro equilibrio tra eleganza e realismo. Attento, e corretto, nel sollevare interrogativi sul funzionamento del Sistema, anziché smarrirsi nel labirinto delle leggi che mette in dubbio, Listen resta profondamente ancorato al fondo umano del proprio racconto.


L'INTERVISTA AD ANA ROCHA DE SOUSA


ANTONIO MAIORINO: senza raccontare una storia capitata direttamente a te, si percepisce che sei riuscita a girare un film molto personale. Quali sono state le esperienze più importanti della tua vita confluite, in qualche modo, nella tua coscienza del film?

ANA ROCHA DE SOUSA: la mia esperienza di madre è stata decisiva. Penso che il film sarebbe totalmente diverso se non fossi stata madre. Il momento preciso in cui sono venuta a conoscenza di questo argomento è stato quando mia figlia aveva solo un anno, era molto piccola. È un momento in cui sei particolarmente sensibile come donna e come madre e questo tema può colpirti molto. Inoltre, per un periodo sono vissuta a Londra, anche se mia figlia Amalia è nata in Portogallo; ma la sola possibilità di essere madre in Inghilterra come straniera, è stata scioccante nel prendere atto dell’esistenza di questo problema, e la ragione per cui ho voluto fare questo film è proprio questa. È un film che viene dal cuore.


A.M: nelle interviste c’è spesso una domanda sul titolo, se serve. Qui, serve: in Listen, chi ascolta di più e chi ha più bisogno di ascolto?

A.R: la ragazzina, Lu, che di fatto è sorda, è anche quella che fa più attenzione al mondo, lo ascolta meglio, resta aperta a quello che succede attorno a lei. Chi ha più bisogno di essere ascoltata è la famiglia, insieme alla stessa Lu, naturalmente. Non mi sento di dire, comunque, che Listen sia un film che imputi al Sistema di non saper ascoltare. È un film critico verso il Sistema, ma corretto. Quando qualcuno afferma che non è così, non sono d’accordo. Ad esempio, c’è un’assistente sociale che è molto umana e tenta in ogni modo di aiutare la famiglia. C’è poi l’ex assistente sociale, Anne Payne, interpretata da Sophia Miles, che esprime una profonda umanità nel mettere a disposizione tutta la propria conoscenza per aiutare Bela, la madre a cui vengono tolti i figli. L’intento del Sistema è dei più nobili, ossia fare il possibile a difesa del bambino, ma il problema è che spesso questo non succede. Il problema si aggrava quando si è a confronto, come nel film, con una famiglia innocente, con indizi che farebbero pensare, erroneamente, alla colpevolezza: così diventa complicato stabilire cosa sia sbagliato e cosa sta succedendo. Più che fare una critica radicale al sistema, penso che quello che il mio film cerca è di far capire alla gente il confine tra giusto e sbagliato e come il nostro giudizio sia influenzato da quello che ci è stato insegnato, più che dalla presenza di fatti concreti. Ciò che trovo scioccante nel film è che alcune decisioni si basino sulle relazioni degli assistenti sociali, più che sulle prove. Quando poi in qualche modo diventa una questione di soldi, oltre alle persone di buon cuore che fanno ciò che possono, se ne trovano anche di altre che non lo fanno. Listen si concentra sulle cose che possono andar male, e con le leggi che si scrivono oggi, succede spesso che possa capitare qualcosa di sbagliato.


A.M: hai evitato la trappola di voler spiegare tutto e subito: lo spettatore capisce gradualmente. All’inizio, c’è una scena in cui Bela va a fare la spesa e lascia Lu e il neonato a terra in un vicolo, accanto a un cassonetto. Passa di lì un anziano signore e guarda costernato, ma proprio in quel momento Bela ritorna dal supermercato, in cui, peraltro, ha rubato alcuni prodotti. Pensando allo stupore preoccupato dell’anziano, mi sono chiesto: e lo spettatore? Che effetto volevi sortire su di lui e che idea della madre?

A.R: penso che ciò che lo spettatore fa in quel momento sia dubitare di Bela. Una parte del pubblico mette in dubbio l’atteggiamento della madre, un’altra semplicemente non lo troverà onesto. È interessante che tu me lo chieda, perché in molti mi hanno chiesto di eliminare questa scena, ma io mi sono decisamente rifiutata. Per me questa scena era fondamentale per il processo del film e serviva per far sì che lo spettatore si mettesse nei panni del Sistema. C’è bisogno di capire le ragioni di entrambe le parti, e grazie a questa scena è possibile. Bela si comporta in quel modo per molte ragioni sbagliate, ma ci sono anche ragioni giuste. Certo, potevano esserci altre opzioni, ma a volte semplicemente commettiamo degli errori. Lei non ha soldi e deve mangiare, ha bisogno di rubare per nutrire i figli. Perché li lascia fuori, a terra nel vicolo? L’idea di fondo è che Lu, la bambina, abbia già un’età in cui è in grado di capire se stai rubando e la madre non vuole mettersi nella posizione di rubare di fronte alla figlia perché sa che è sbagliato. Vuole quindi lasciare i figli fuori per nascondere le cose, sperando che poi la situazione migliori presto e che alla fine vada tutto bene; ma adesso deve rubare per mangiare, ed è quello che fa. Quando Bela si accorge che il vecchio sta guardando, diventa ansiosa perché sa che sarà giudicata: tutti lo farebbero, anche io se vedessi dei bambini vicini al bidone dell’immondizia. Il senso di quella scena è dunque di far capire allo spettatore entrambe il punto di vista, del Sistema e della madre. Non è l’unica scena in cui succede, ma intanto il fine di questa è proprio questo.


A.M: c’è una cosa che salta subito all’occhio guardando il film: la presenza costante dell’arte. Arte intesa come qualità della composizione visiva in ogni singolo fotogramma; arte intesa come presenza materiale di oggetti artistici, quali disegni, dipinti, oggetti d’arredo, carta da parati. Che valore aggiunto dà l’arte a Listen?

A.R: in ragione della mia laurea in Belle Arti, l’arte fa parte di me. Con questo film, e con altri che girerò, ho dovuto avere una cautela in particolare: quella di non strafare, di non insistere troppo su questo lato artistico. Nella casa in cui vivono Bela e Jota, non ci sono le loro cose; vivono in una casa antica, con oggetti che non hanno scelto loro, compresa la carta da parati. Se potessero, sceglierebbero qualcosa di diverso. Ma il bello è proprio questo: ritrarre una famiglia a disagio, fuori contesto, fuori dal tempo, totalmente isolata. Vivono in un’assoluta confusione e fare in modo che non facessero parte di niente, che non potessero identificarsi con niente, era parte del racconto. Nelle scenografie per me la composizione è importante in ogni fotogramma e non voglio che il mio film difetti di attenzione verso l’arte perché voglio che sia un’esperienza visiva, ma dovevo andarci piano per non esagerare. Questa è la parte difficile, quando abbordi il realismo sociale e vuoi farlo con onestà, con sincerità, ma allo stesso tempo con una spiccata impostazione visuale. È un percorso pericoloso, ma ho intenzione di continuare a provarci.


A.M: devo dire che proprio al Festival di Venezia di quest’anno, il lavoro di un noto documentarista italiano è stato in parte biasimato anche per questo tipo di frizione tra attenzione fotografica, quasi estetizzante, e tema impegnato. Pare che ad alcuni sembri una forma di exploitation (sfruttamento).

A.R: la cosa più orribile che possa succedere quando guardi un film è quando ti accorgi che viene sfruttata la povertà per cercare la bellezza. Io cerco di fare in modo di produrre un’esperienza cinematografica in piena regola, ma anche di ricondurla il più possibile a un’esperienza cruda. È quello che cerco di fare proprio in Listen.  


A.M: Salto ai titoli di coda, perché c’è qualcosa che può interessarci. I titoli sono accompagnati dalla canzone Hold my hand di Nessi Gomes. Ho visto che la canzone è tratta dall’album Diamond and demons. In effetti, Listen è un film di diamanti e demoni: c’è bellezza, ma anche crudezza; c’è amore, ma anche conflitto; Jota ha mani da disegnatore, ma le nocche con lividi per qualche scatto di rabbia; il finale stesso è agrodolce. Ci puoi raccontare questa poetica del contrasto?

A.R: il contrasto è qualcosa che m’interessa molto e se dovessi usare una parola per definire questo film, userei questa: contrasto. Durante le riprese ho usato spesso questa parola con gli attori mentre li dirigevo. Dicevo: per favore, contrasto, contrasto, contrasto. Il film è un viaggio doloroso ma accompagnato dalla ricerca di bellezza. Per le canzoni, però, devo dire che sono piuttosto allergica al loro uso nei film, a meno che non sia davvero necessario e non ci sia uno scopo ben preciso. Uso per esempio una canzone nella scena in cui Bela è sul divano e guarda la televisione: lì il suono è molto importante per comunicare il messaggio che intendevo trasmettere.  Altrimenti, non mi piace usare la musica per sottolineare o tirare le emozioni dagli spettatori, tanto è vero che durante il montaggio del film ho percepito che avessimo utilizzato troppa musica e ho deciso di toglierla. È una cosa che mi mette ansia. C’è un altro momento, tuttavia, in cui la musica è importante, ed è quando Lu guarda attraverso la sua camera da presa, sul divano, nel soggiorno, prima che la famiglia venga separata: l’ho fatto perché il punto di vista è quello di Lu. Infine, c’è la canzone di cui Nessi Gomes, di cui mi chiedi, nei titoli di coda. Quando si sceglie una canzone per un film, è importante che sappia catturare l’essenza del film. la canzone di Nessi si addiceva perché lei ha canzoni con spagnolo, portoghese e inglese, e questo miscuglio di linguaggi è l’anima del film. Quando studiavo alla scuola di Londra con tanti cineasti internazionali, vedevo tanti film stranieri in cui questo mix di linguaggi era presente. Fa parte di quello che siamo come registi, non è un tentativo di essere originali. C’era anche un’altra canzone di Nessi che volevo utilizzare, ma non era in linea col montaggio che avevamo. Sono innamorato della canzone Hold my hand, che abbiamo usato nei titoli di coda, perché ha una composizione molto portoghese a livello di strumenti, per cui ha senso rispetto alle origini lusitane della famiglia di Lu ed io stessa mi ci sento in profonda sintonia.


A.M: sempre parlando di registi italiani a Venezia, ti faccio notare che Susanna Nicchiarelli ha usato, tra le altre, delle canzoni punk dei Downtown Boys nel film Miss Marx, mentre nella colonna sonora di Padrenostro di Claudio Noce sono emozionanti i momenti in cui si sentono canzoni italiane come Buonanotte fiorellino o Impressioni di settembre.

A.R: ma sai, io stessa posso fare molti esempi in cui le canzoni sono fantastiche. Non dico che le canzoni non funzionino nei film, ma dico che rispetto a quello che io cerco di fare, non è né corretto né fattibile usare la musica in quel modo. Poi, ammiro chi lo fa, quando ci sono le ragioni per farlo. Rispetto al tipo di film che ho girato e alla storia che sto raccontando, sarebbe un percorso molto insidioso. Ma ci sono grandi film che l’hanno fatto, indubbiamente. E a proposito di Venezia, per me il vincitore Nomadland è meraviglioso. Per dirti, alla fine del film c’era una signora a tre sedili dal mio posto e non riusciva a respirare, piangeva a dirotto. Anche io ho pianto, ma quando ho visto lei, ho pensato: starà per avere un infarto, sta bene? Stavo pensando di chiamare qualcuno. Non riusciva a parlare.


A.M: a proposito di contrasti. Nella scena immediatamente successiva a quella in cui Jota comunica a Bela che vuole rivolgersi a un’ex assistente sociale di nome Anne Paye, con Bela che non è d’accordo, c’è una sequenza molto eloquente. I due sono alla fermata dell’autobus e si danno le spalle; la macchina da presa, con uno stacco del montaggio, dalle spalle passa a inquadrarli di lato; loro si guardano con freddezza ostile; lui sorride, alla fine si abbracciano.  Come racconteresti contraddizioni e difficoltà del loro rapporto tra i due usando questa scena come traccia?

A.R: sono molto appassionati. È una coppia che va incontro a delle difficoltà e non è una cosa che possa avvenire senza influenzare un rapporto. Si vede nel corso del film che hanno una meravigliosa connessione l’uno con l’altro, ma quando le cose vanno male non è possibile non dubitare a vicenda. Devono trovare un modo per unire le proprie forze, ma non è facile nella situazione che affrontano. Lo si capisce, spero, nel corso della storia, in modo sottile. Allo stesso modo si capisce perché in alcuni momenti del film siano assolutamente distanti, ma ciò che conta è che nel pieno della tempesta riescano a stare insieme. Quando devono andare da Anne Payne, l’ex assistente sociale, le dice che non verrà, ma poi lo fa. Anche se non ci crede, ci va.


A.M: proprio Anne consiglia a Bela di dover imparare a trattenere la rabbia. In un rapporto dei servizi sociali, Bela è descritta come “aggressività”. Hai pensato al fatto che quella che il mondo della burocrazia chiama “aggressività” altro non sia che una forma, in questo caso necessaria, di istinto materno?

A.R: ti risponderò facendoti un esempio, al di là del film. Mi sono emozionata moltissimo quando ho saputo che avrei ricevuto il Leone del Futuro, non me lo aspettavo per niente. Il modo in cui ti comporti, ciò che senti, le emozioni che ti prendono, raccontano chi sei e come vivi i tuoi sentimenti, ma la gente non sempre lo interpreta nel modo giusto. Nel mio caso, molti avranno detto cose del tipo “è il suo film d’esordio”, “stanno accadendo tante cose e lei ne è schiacciata”, ecc., ma questo deriva dai diversi scenari culturali da cui provengono questi giudizi. L’ho sempre pensato: la cultura ha un’influenza profonda su come rispondiamo alle emozioni.  Una cosa che ti posso assicurare è che in Portogallo sono la stessa persona e il modo in cui mi comporto, in cui esprimo le mie emozioni sono recepite in modo molto diverso da come mi accadeva a Londra. È relativo alle culture e a quello che abbiamo appreso nella nostra vita: il nostro modo di essere deriva interamente da questo. Un esempio che faccio abitualmente è che ridiamo e piangiamo nel nostro personale linguaggio: è il nostro modo di parlare senza parole, ed è anch’esso collocato all’interno della nostra cultura. In Portogallo siamo molto emotivi, come in Italia, e non lo nascondiamo; questo non significa che sia giusto o sbagliato. Non sto giudicando affatto. Vorrei controllare di più le mie emozioni tutto il tempo, ma sono lì ed è impossibile. Sono stata attrice per tanto tempo e mi fa ridere quando mi dicono: “beh, sei un’attrice, puoi nascondere le emozioni”. Macché! La gente si accorgerebbe subito se sono onesta o meno. In quanto alla domanda: è come dici tu. Le madri depresse hanno maggiori probabilità di perdere i figli se non sono supportate. Il film nasce da una considerazione di questo tipo, per la quale devo svelarti un aneddoto. Un giorno ho visto un documentario che raccontava la storia vera di un’assistente sociale. La donna va dal medico e dice: non so se sono depressa o meno. Solo per questo, è stata messa nel mirino dai servizi sociali. E per questo è stata messa nel mirino dai social services. Il fatto che lavorasse come assistente sociale l’ha aiutata a venirne fuori, ma c’è stato un momento in cui si è fermata a pensare da assistente sociale: “dunque è questo è quello che facciamo alla gente!”.  Vedere questa testimonianza è stato molto importante per spingermi a girare Listen.


A.M: ne concludo che l’episodio che mi hai raccontato abbia generato il personaggio di Anne Payne nel film, per l’appunto l’ex assistente sociale che aiuta Bela e Jota.

A.R: ogni fatto può avere molte sfaccettature. Per me è impossibile come madre non capire una reazione disperata come quella di Bela, anzi, sarei anche più emotiva di lei. Nel corso della storia, Bela viene aiutata appunto da Anne Payne, che la riduce alla ragione, la costringe a doversi osservare, a controllare ogni singolo movimento, a gestire ogni parola: sei sul campo di battaglia e tutto potrebbe essere usato contro di te e far peggiorare la situazione. E c’è, di fatto, un momento in cui Bela fa peggiorare la situazione, appunto quando sbotta, perché capisce che si trova in un ambiente in cui accadono cose assurde.


A.M: a un certo punto del film, un assistente sociale dice rivolgendosi alla famiglia: siamo dal vostro lato. Eppure, la scena in cui Bela e Jota vengono separati dai figli è drammatica, c’è un’autentica irruzione poliziesca in casa. Ritieni che questi assistenti sociali abbiano un’identificazione piena col Sistema che rappresentano, o a volte soffrano a esserne i meri esecutori?

A.R: devono sempre eseguire gli ordini. Devono seguire le regole, ma spesso le regole non sono pensate per essere molto specifiche caso per caso, perché semplicemente non è possibile, così quelle regole diventano molto soggettive. Il risultato è che la tua vita può completamente dipendere dal giudizio di qualcun altro. Quando l’assistente dice che i bambini devono essere messi in adozione per evitare danno fisico o emotivo, per me non ha senso. Separare la famiglia provocherà un danno perpetuo emotivo, col pretesto di proteggerli da futuri rischi, che non hai prove essere tangibili. Gli assistenti sociali del film non possono fare a meno di segnalare i lividi sul corpo di Lu, perché ci sono; fanno dunque la cosa giusta, ma inevitabilmente provocano un danno emotivo perché la famiglia ha bisogno di protezione, comprensione, supporto. Inoltre, il sistema è molto duro ed è pressoché impossibile rovesciare l’esito di un processo. Ci sono casi veri di genitori che ricevono lettere dal governo che dicono: "ci dispiace molto, è stato un errore, ma non c’è niente da fare adesso”. Che!? Vi dispiace e non potete riaprire il processo? Questa non è giustizia. Se si fa un errore, bisogna fare il possibile per rimediare, c’è la vita dei bambini di mezzo: non si può aspettare che il bambino faccia 18 anni e decida se tornare dai genitori o meno. Questo è il mio punto di vista sulla questione.



A.M: sarebbe stato il Neoralismo italiano a utilizzare deliberatamente la prospettiva dell’infanzia, anche con l’uso della camera ad altezza bambino. Da allora in poi, un regista che voglia girare film in cui i bambini siano protagonisti, deve scegliere con coscienza se mostrare il mondo attorno a loro o il mondo dai loro occhi. Se penso a un film recente con bambini e controversie legali, penso a Cafarnao di Nadine Labaki, vincitore a Cannes, in cui la prospettiva è quella del giovane protagonista. E tu che scelta hai fatto rispetto alla bambina, Lu?

A.R: ci sono dei momenti in cui vediamo il mondo dalla prospettiva di Lu e stabiliamo una connessione con lei, ma è stata una scelta per me quella di voler esplorare questa visuale. È un trucco cinematografico, quello di esplorare possibilità visuali. Alla fine, però, ho capito che non sarei potuta andare troppo per questa strada, sarebbe stato tutt’altro tipo di film. La cosa più importante resta infatti che gli spettatori siano connessi ai genitori e alla famiglia come tutt’uno, mentre se avessi usato solo la prospettiva della bambina sarebbe stato interessante, ma più facilmente sarebbe diventato qualcosa di inadeguato a quanto stavo cercando di rappresentare. La tentazione della prospettiva di Lu era forte, perché lei era sorda e potevo quindi esplorare il film dal punto di vista visivo. Ho dovuto dunque frenare il mio amore per il cinema e la mia passione per le immagini. La mia direttrice della fotografia Hatti Beanland mi ha detto: non possiamo farlo! È stato divertente, perché c’era un contrasto tra Hatti e Me nel cercare di non fare... quello che in realtà volevamo fare! È stata dura, ma alla fine ce l’abbiamo fatta a non corrompere il linguaggio del film sovrapponendo la composizione visuale al messaggio essenziale.


A.M: ciò non toglie che resta una quota di accuratezza visiva, diciamo, innocentemente “artistica”, che a mio avviso distingue questo film da opere di Ken Loach, un regista che è stato più volte citato da altri a proposito del tuo film Listen.

A.R: è importante dire anche questo: molte persone guardando il film l’hanno paragonato a Ken Loach. Ho il massimo rispetto per Ken Loach e amo il suo cinema, ma sto cercando di proteggerlo: penso assolutamente che Loach possa vedere il film e dire: “siete impazziti? Come vi viene in mente di dire che questa regista sta seguendo le mie orme?”. Non lo farebbe mai! Penso che si arrabbierebbe, noterebbe che io faccio le cose visivamente all’opposto del suo modo di lavorare. È ingiusto paragonarmi a Loach... ingiusto per lui, perché mi ucciderebbe! (Ride, n.d.R.) In comune c’è naturalmente l’interesse sociale e i soggetti.


A.M: alla fine di questa intervista, esce rafforzata la mia convinzione che questo film sia empatico, un film nato dalla tua profonda connessione con la materia e fatto per produrre un cambiamento. Cosa vorresti cambiare?

A.R: la giustizia. Vorrei fare di questo mondo un posto migliore per tutti, anche per persone che qualche volta nemmeno se lo meritano. Il nostro giudizio può anche essere sbagliato. Vorrei un posto migliore per tutti. Abbiamo bisogno di spazio per il cambiamento e la compassione.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO INTERNAZIONALE: Listen
REGIA: Ana Rocha de Sousa
DURATA: 74’
PAESI: Regno Unito, Portogallo
CAST: Lúcia Moniz, Sophia Myles, Ruben Garcia, Maisie Sly, James Felner, Kiran Sonia Sawar, Lola & Kiki Weeks, Brian Bovell
SCENEGGIATURA: Ana Rocha de Sousa, Paula Vaccaro, Aaron Brookner
FOTOGRAFIA: Hatti Beanland
MONTAGGIO: Tomás Baltazar
PRODUZIONE: Pinball London (Paula Vaccaro, Aaron Brookner), Bando á Parte (Rodrigo Areias)

(immagini, fonti: fotogrammi dal film Listen di Ana Rocha de Sousa; immagine principale: Bela abbraccia Lu; all'interno: Lu di spalle guarda il cielo. Si ringrazia Bando á Parte)


Antonio Maiorino


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