La virgen de agosto, intervista all'attrice Itsaso Arana: "La mia Eva è una ribelle tranquilla"
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La virgen de agosto, intervista all'attrice Itsaso Arana: "La mia Eva è una ribelle tranquilla"

sabato 15 agosto, 2020

INTERVISTA A ITSASO ARANA. Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, La virgen de agosto di Jonás Trueba: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.


È tutta in estate, ed è tutta anti-estiva nel senso comune del termine, la storia che Jonás Trueba racconta ne La virgen de agosto, gioiellino spagnolo proposto per 12 candidature ai Premi Goya e già variamente insignito nel circuito dei festival (tra cui Karlovy Vary e Cinespaña di Tolosa), dopo la prestigiosa vetrina dello storico Festival di San Sebastián. Tanto del merito spetta all’attrice protagonista e co-sceneggiatrice del film, Itsaso Arana, che nelle peregrinazioni di Eva ricrea e vive, a modo suo, il personaggio della donna di 33 anni, insoddisfatta, a spasso nelle strade di Madrid tra feste popolari – las verbenas – sull’asfalto che ribolle, nei nei pensieri che ribollono, tra le bollicine della birra o del vino: incontri, pensieri, avventure – leggeri, mai pretenziosi, ma con la profondità inafferrabile dell’intuizione, l’ebbrezza liquida di riscoprirsi. Qualche concerto c’è, ma non è un’estate per discotecari: funziona meglio abbandonarsi alle acque del fiume, durante un picnic con gli amici, o guardare il cielo stellato sopra di me.
Dentro di me, è un po’ un casino.


LA TRAMA DEL FILM LA VIRGEN DE AGOSTO (QUI IL TRAILER)

Eva va in città, anche se ci è sempre stata. È un atto di fede: questa estate si resta a Madrid. Prossima ai 33, la donna, che fa l’attrice nella vita, compie un atto di fede e prova a rivedere il suo “ruolo” di trentenne e donna, possibilmente senza copioni troppo rigidi. Parte un diario cinematografico di quindici giorni, scandito dalle feste popolari di Madrid, a cui si sovrimpone il tempo personale della riflessione della protagonista, con piccole grandi svolte, rallentamenti, pause e imprevedibile quotidianità. Rigorosamente estiva.


PERCHÉ INNAMORARSI DEL FILM LA VIRGEN DE AGOSTO

Il cinema di Jonás Trueba riesce a mantenere una sospensione prodigiosa tra l’allegria e la riflessione, la dimensione piana dei piccoli eventi quotidiani e la ricerca filosofica, assaporando la piccola scoperta, senza precludersi la vertigine di più grandi pensieri. Grazie al decisivo apporto della protagonista e co-sceneggiatrice Itsaso Arana, La virgen de agosto lavora sempre per de-astrazione, si concretizza e si accosta nel personaggio di Eva, diventando un on the road a chilometri zero: tutto qui e ora, presentissimo. Si viaggia nella vita, a Madrid, dove a volte il trambusto del concerto di strada o dei bicchieri che tintinnano copre anche i dialoghi, ma disvela il gesto, lo sguardo, l’incontro.


L’INTERVISTA A ITSASO ARANA

ANTONIO MAIORINO: il film non inizia con delle immagini, ma con una dichiarazione scritta. Si legge che per la protagonista da te intrepretata, Eva, restare a Madrid in estate è un “atto di fede”. Potresti spiegare il senso di questa espressione? Inoltre, quale “atto di fede”, invece, raccomandi allo spettatore per sintonizzarsi con lo spirito del film e saperne l’atmosfera?

ITSASO ARANA: credo che oggi sempre più sia un atto di fede quello di saperci consegnare a una storia o di andare in una sala cinematografica, perché le tensioni che viviamo ogni giorno ci fanno essere sempre altrove. Tutto il cinema è un atto di fede. La virgen de agosto è raccontato in un presente puro e non sappiamo molto del personaggio, quindi dobbiamo accompagnarla con fede e speranza in questo luogo per il quale vuole passare, ma che nemmeno lei sa bene quale sia. C’è bisogno della stessa fede nella vita, nel senso che anche noi sappiamo di star andando da qualche parte, ma né dove di preciso né come ci arriveremo, soprattutto in questi tempi incerti. Il film ci permette di dubitare assieme a un personaggio che a stento parla del proprio passato, ma che chiaramente si trova in un momento in cui si rimettono in discussione le decisioni più importanti. Eva vuole lasciarsi dietro una forma d’essere e cercare di essere migliore di ciò che è. Lei stessa, dunque, compie un atto di fede e lo spettatore non può che accompagnarla in questo viaggio incerto.


A.M: la prima sequenza, in cui Eva s’insedia in un appartamento a Madrid e parla col padrone di casa, manifesta alcuni caratteri dello stile e alcuni elementi di contenuto del film. Quanto allo stile, la tendenza alla digressione su elementi apparentemente inutili, in realtà funzionali al complessivo effetto di realismo. Il contenuto è invece anticipato dal riferimento del padrone di casa a Stanley Cavell, filosofo americano che scrisse un saggio sulla commedia nell’età dell’oro di Hollywood dal titolo Alla Ricerca della Felicità: la commedia Hollywoodiana del rimatrimonio. Il padrone di casa cita attrici come Barbara Stanwyck e Katherine Hepburn, dicendo che furono le prime attrici, all’epoca, a “portare i pantaloni”, alludendo al carisma delle donne da loro interpretate. Tu, Itsaso Arana, ti senti un’attrice “che porta i pantaloni”? E come inquadreresti questa definizione rispetto al personaggio di Eva?

I.A: è curioso, porto i pantaloni proprio in questo momento (ride, n.d.R.). Ti rispondo sia dal punto di vista personale, sia dal punto di vista cinematografico. Dal punto di vista personale la mia relazione con i pantaloni è molto particolare. Sono basca, del nord della Spagna, e in quella cultura c’è un rapporto con la femminilità piuttosto complesso. Desideravo venire a Madrid anche per mettere più spesso la gonna, perché la femminilità nei paesi baschi è un po’ mascolina, mentre più a sud in Spagna – ma questa è una mia teoria, molto soggettiva – le donne si possono permettere di essere più femminili nell’aspetto. Quando abbiamo girato il film sono tornata a indossare i pantaloni ed è stato un po’ come riconciliarsi con i pantaloni perché li avevo messi da parte dopo l’arrivo a Madrid. Sul piano cinematografico, portare i pantaloni vuol dire partecipare alle cose in profondità e non essere solo elementi decorativi. Certo, l’espressione “portare i pantaloni” dovrebbe essere in parte rivista, perché viene fatta coincidere con l’idea di tenere il comando. Io posso dire che porto i pantaloni ma nella mia misura, sono pantaloni da donna! Devo anche dire che questa prima sequenza non viene sottolineata da molti, eppure per noi è importante in quanto programmatica, è quasi un libretto di istruzioni per il resto del film: ti dice più o meno quello che potrà succedere, parla della ricerca della felicità e – qui rispondo alla tua domanda – parla di “portare i pantaloni” nel senso di ridiventare padroni di sé stessi. Ecco, questo prologo è un modo per raccontare che il film avrà luogo lì a Madrid, con quegli elementi concettuali, con una persona che cerca di riappropriarsi di sé stessa.  


A.M: dopo questa scena dialogata, però, mi sono messo a contare i minuti di silenzio consecutivi delle scene successive: dieci minuti e cinquanta secondi, in cui seguiamo Eva tra l’appartamento e le prime passeggiate madrilene. Qui se costruisce il patto narrativo con lo spettatore in funzione della distanza o della prossimità. Secondo te, allo spettatore viene fatto vedere il mondo tramite gli occhi di Eva, in una sorta di focalizzazione interna, oppure il film crea rispetto alla sua protagonista degli spazi di silenzio, di mistero, di distanza?

I.A: il film l’ho scritto con Jonás e bisogna ricordare che Eva è il primo personaggio femminile protagonista nella sua filmografia: negli altri film i protagonisti erano uomini con maggiore o minore identificazione da parte sua, sempre in qualche modo legati alla sua vita con questioni che gli stanno a cuore. È interessante la relazione tra Jonás regista e me attrice, così come la relazione tra mistero, vicinanza e distanza: fa parte consapevolmente della scrittura del film. Quanto alla posizione dello spettatore, è come se la macchina da presa fosse in un posto e il personaggio stesse giocando con la distanza: si avvicina, si svela, si mostra, parla o non parla. Eva è un personaggio che può mostrarsi misterioso nel senso che la macchina da presa non sta su di lei tutto il tempo, piuttosto è lei ad avvicinarsi e a decidere di svelarsi o meno durante i giorni d’estate. Spero che si crei un’identificazione man mano che si sviluppa il film, ma che sia un’identificazione “tranquilla”, scelta dallo spettatore, e non sovrimposta come punto di partenza. La virgen de agosto è infatti un film che si può vedere il film da molte distanze diverse.


A.M: tutte le volte che chiedono qualcosa a Eva, le sue risposte sono una ripetuta variante del “non lo so”, anche rispetto alle domande di base: Cosa fai nella vita? Perché sei qui? Quanto resti a Madrid? Eva oppone sempre la sua serena incertezza, glissa. La prima volta succede quando incontra l’amico giornalista, Luis, nel museo archeologico di Madrid: “che fai qui tutta sola?”. Ebbene, di fronte a tanta reticenza, che idea pensi si faccia lo spettatore della cosiddetta backstory, la storia del personaggio fuori dal film? E tu come la riassumeresti?

I.A: era una delle sfide principali in fase di scrittura fare un film puramente nel presente in cui il personaggio parlasse a malapena del proprio passato. Il passato è un po’ noioso. Eva è un personaggio che ha una ribellione tranquilla, perché in fondo per me non è un personaggio che sia già abituato a mettere le cose in discussione o che non abbia preso decisioni, piuttosto che decide di dubitare, che si dà lo spazio e il diritto di dubitare. Siamo in un mondo in cui tutto il tempo si esige da parte nostra di riaffermarci con un’identità chiara e dire chi siamo. Veniamo di continuo identificati con tantissime etichette. Arriva il momento in cui per Eva si sta aprendo un varco per cercare di capire chi sia, ma non è uno stato che possa durare è lungo: il film si svolge seguendola quotidianamente durante quindici giorni, e poteva succedere solo in estate, quando puoi permetterti di cambiare pelle. Mentre cambi pelle, però, non sai chi sei, e hai il diritto di non saperlo: è una rivendicazione del dubbio.  Ma non mi immagino, ripeto, che Eva continui a dubitare per cinque anni, penso piuttosto che abbia preso molte decisioni nella vita e proprio per questo vuole smettere di correre, vuole fermarsi per chiedersi: aspetta, la vita che ho è quella che voglio? Voglio forse essere diversa? E così a poco a poco nel film si vede che dubita della sua professione, si chiede se voglia continuare a fare l’attrice, ha dubbi sul continuare a vivere nella sua città, teme di non aver viaggiato abbastanza, si capisce che viene da una storia d’amore da cui sta gradualmente uscendo. Tutto questo il film lo mostra.  


A.M: La virgen de agosto è una ricerca sopra “il coraggio di diventare sé stessi” – el coraje de llegar a ser uno mismo, secondo le parole usate dal padrone di casa nella scena iniziale. Il film, dunque, come tanta opera di Jonás Trueba, ha molto del filosofico, sia pure di una filosofia molto concreta che si applica costantemente alle cose della vita. Proprio con l’amico Luis, Eva spiega la sua filosofia dell’estate, come periodo che ti permette di “essere te stesso più che mai”. Come riassumeresti questa filosofia, per la quale oserei dire che La virgen de agosto è destinato a diventare un classico dei film dell’estate nella storia del cinema?

I.A: assolutamente vero. Il film pone una nuova visione dell’estate come spazio per ripensarsi, per riflettere, per potersi fermare e mettersi in relazione con gli altri con una nuova calma. In altre parole, per mettersi in discussione. L’estate è un momento spesso visto come disconnessione o divertimento: ti diverti per disconnetterti. Quella di Eva è un’estate in cui non c’è bisogno di molte cose per divertirsi, torni a godere mangiare dell’anguria, bere acqua, parlare con un amico, guardarti allo specchio, andare al fiume. D’altro canto, è quello che quest’anno siamo spinti a fare un po’ tutti, no? Non un’estate di ostentazione, ma in cui guardarsi dentro; non di quantità, ma di qualità.


A.M: nel montaggio sonoro, avete scelto di non eliminare i rumori di fondo di tutti i dialoghi in cui Eva parla in luoghi affollati, riproducendo l’atmosfera delle feste popolari di Madrid. Nella scena del fiume, in cui Eva galleggia sull’acqua e ne ascoltiamo il monologo interiore, la strategia è opposta: silenzio fuori, c’è solo il flusso interiore dei pensieri. È il momento di svolta, in cui finalmente entriamo nella testa di Eva?

I.A: è un effetto assolutamente cercato. A livello di suono, La virgen de agosto è un film molto esigente e poco convenzionale. Nei film c’è la tendenza a dover far capire tutto bene. Il bello di non capire tutto, anche se può apparire contraddittorio, è che ti accorgi di più del comportamento, del gesto di parlare e di come ci si parli, di come si cerchi di comunicare al di là di ciò che si dice. C’è un momento con Luis, il giornalista, quando per la prima volta entriamo nelle verbenas (le feste popolari di Madrid, n.d.r), in cui non si capisce molto bene ciò che stanno dicendo, eppure si nota una certa attrazione e una forma di interesse reciproco, anche se non si distinguono esattamente le parole che dicono. È più importante far vibrare l’energia del parlato, rispetto a ciò che si dice. Abbiamo pensato per il film a un dispositivo da documentario, in cui niente fosse ricreato o fabbricato ad arte. Andavamo a queste feste e facevamo nascere gli episodi di finzione all’interno della realtà. È questo che cambia lo spirito del film e lo fa sentire così reale, perché il sottofondo stesso è reale. E poi c’è la realtà di dentro, che emerge così vividamente a partire dalla scena del fiume, non a caso eletta tra le immagini promozionali del film. Nel processo di scrittura era molto importante sentire e far sentire che il personaggio si appropriasse del film. A partire da quella scena, è come se Eva si accorgesse di far parte di un film, e tutti gli elementi più magici cominciano a materializzarsi: è come se da quel momento in avanti Eva cominciasse a scrivere il film di ciò che le succede nella vita. Ci piaceva anche questa idea di come il film si dividesse in due, dopo questa sorta di battesimo nell’acqua. È allora che Eva si appropria del film e del suo stesso corpo: parte il suo processo di liberazione.


A.M: sempre nella scena del fiume, Eva, che indossa il costume intero prestatole da un’amica, sembra quasi non volersi scoprire fisicamente: muy tapada, molto coperta, la definisce l'amica. E lei, che nella vita fa l’attrice come te, replica: il pudore va molto bene per recitare. Quanto pudore ti è servito per interpretare Eva?

Tantissimo. Tanto Jonás che io lo condividiamo e probabilmente abbiamo fatto film e interpretazioni per trovare una forma di mostrarsi al mondo ed esprimerci. È un attributo che mi accompagna in tutta la mia vita e anche Jonás fa film pudici. È uno dei tratti importanti ma è un pudore che nasconde personaggi forti che si mostrano con rispetto e attenzione.



A.M: è inutile che io aggiunga altri dettagli sulla scena del fiume. È così perfetta che parlarne oltre sembra quasi superfluo. Non voglio andare a scavare, ti chiedo solo come sia nata e soprattutto se fosse già scritta in quel modo o fosse invece frutto di una sorta di “sceneggiatura parlata”, da mettere in atto affidandosi anche all’improvvisazione.  

I.A: è curioso che tu me lo chieda proprio in relazione a questa scena. In generale, una delle domande che si fanno sempre sul cinema di Jonás per il fatto di essere così parlato e per come struttura la sceneggiatura, è quanto ci sia di improvvisato. Ora, improvvisazione è sempre una parola problematica perché in realtà non è tanto un’improvvisazione del tipo lasciar l’attore libero di dire ciò che capita, quanto una sceneggiatura concordata e messa in situazione.  In pratica, La virgen de agosto è un film scritto, ma proprio quella conversazione in riva al fiume su come si arrivi a essere una persona e se stessi (il tema introdotto all’inizio col riferimento a Stanley Cavell), l’abbiamo deciso all’ora di pranzo del giorno stesso delle riprese. Lo si percepisce: l’effetto è di una sceneggiatura parlata, e non scritta. Così, abbiamo deciso di fare questa conversazione, abbiamo fatto due o tre riprese e alla fine ognuno degli attori sapeva più o meno cosa dire. Sarebbe stata un’oralità difficile da conseguire se fosse stato scritto tutto nella sceneggiatura. Dico anche che c’è bisogno di molta fiducia nel gruppo artistico e tecnico per girare una scena così arrischiata, ma il risultato è un momento speciale... direi “liquido”, per definirlo in qualche modo.  


A.M: parlando di scrittura del film, una recensione del film su Fotogramas, a firma Pablo Vázquez, definisce Jonás come “quell’amico a cui ricorriamo di quando in quando, nonostante le sue isterie, e i suoi difetti, perché possiede la qualità di vedere il mondo in modo diverso dal nostro”. Ma la visione del mondo de La virgen de agosto è molto anche la tua, considerando che ne sei co-sceneggiatrice e attrice protagonista. Scrivendo il film con Jonás, è stata più fertile la coincidenza di visioni o le piccole ma decisive differenze?

I.A: non saprei dire quale dei due aspetti sia più importante, certo è che abbiamo cercato di accogliere allo stesso modo ciò che ci univa e ciò che ci divideva. Mi ha sorpreso sentir dire a Jonás in alcune interviste che il personaggio di Eva è quello con cui ha avuto più identificazione nei suoi film, perché questo film gli ha permesso di prender parte a situazioni che per il fatto di essere uomo non aveva avuto la possibilità di vivere, e questo è quanto più apprezzava in questa esperienza.  Tutto parte, comunque, da una sensibilità condivisa con Jonás, che aveva visto il mio lavoro teatrale come drammaturga e attrice e aveva notato un’affinità molto forte. Il bello di aver scritto il film insieme è che ognuno ha mantenuto la propria individualità in forma molto rispettosa. Ci sono cose del personaggio di Eva che non avrei fatto, ma è proprio questo disaccordo col mio stesso personaggio che mi arricchisce. Jonás , poi, ha un comportamento molto tollerante, non è unilaterale: permette agli altri di essere come sono e li valorizza in quanto tali. Mi ha dunque permesso di essere come sono… così come io l’ho permesso a lui!



A.M: uno dei temi del film è la rappresentazione del femminile nei suoi elementi profondi. Usiamo l’espressione di femminino, molto vicina a quella spagnola. Già nella scena del museo archeologico, si nota che Eva è attratta dalla cosiddetta Dama di Elche, scultura antica che pare condensare il fascino dell’enigma femminile. Certo, non era l’idea portante del film: emerge anche perché il film, prima di tutto, è il ritratto di una donna in cerca della propria identità. Parlando in terrazza con le due “Maria”, incontrate per caso in una sala cinematografica, Eva dice che quando le donne hanno il ciclo sembrano essere più deboli e non riuscire a fare le cose. Questo è quasi un “limite” di carattere fisico, ma a livello sociale e psicologico, secondo te cos’è che a volte fiacca, indebolisce e mortifica la donna?

I.A: è una questione complessa. C’è una dimensione del femminino che ha a che vedere col sensibile. Il femminino viene associato a ciò che si riceve, l’energia femminile è ricettrice; in realtà, però, questo tipo di energia è sia nell’uomo che nelle donne, e non vedo perché considerarlo intrinseco delle donne. Più che sul ricevere, il nostro sistema culturale è strutturato in maniera da essere più centrato sull’affermare, sul muoversi in avanti, come fosse un movimento fallico. Così, il femminino viene relegato all’ambito dell’intimità, della casa, della maternità, dell’amore, del ricevere e aspettare piuttosto che attaccare, avanzare, avvicinarsi.  Per questo l’energia non viene valorizzata: si valorizza sempre l’azione e non la ricezione, il parlare prima che l’ascoltare. Ci sono molte donne con energia mascolina brutale, ma è più interessante provare a trovare un equilibrio tra questa forza ricettiva del femminile e dell’ascolto, con quella dell’affermazione e dell’attacco. Tanto più per come è il mondo in questo momento, dobbiamo ascoltare di più, dubitare di più senza vergogna, riuscire a dire più “non lo so”. Spesso non è che le donne non sappiano, piuttosto non hanno il coraggio di dire ciò che sanno; è una forma di umiltà che viene attaccata perché sembra una forma di debolezza, ma ripeto, è la manifestazione di un’energia non solo femminile, bensì incorporata in entrambe i generi.


A.M: nella seconda parte s’incomincia a parlare di cielo, stelle, costellazioni, luna. C’è una sorta di svolta magico-mistica. Perché questo cambio di tono?

I.A: abbiamo giocato su questo sin dal titolo. Il nostro calendario è completamente segnato da quello cattolico, tuttavia queste feste di agosto si celebrano in una forma assolutamente pagana. Nella società spagnola convivono il cristianesimo cattolico, come religione molto codificata, con una normalità contraddittoria e stupefacente che ti sorprende se la osservi dall’esterno. Ci piaceva molto questo fuoco mistico che il personaggio trova man mano che avanza il film e recupera una fede, ma se si fa attenzione, noti che ci sono elementi che spingono in questa direzione sin dall’inizio: il nome, ad esempio, oppure il fatto che Eva abbia 33 anni, l’età di Cristo. Sono ammiccamenti da prendere in forma umoristica, non solenne, ma è certo che il film gioca con questa linea di recupero della fede, non nel senso della religione codificata, quanto nella ricerca di piccoli segnali in un tempo d’estate quasi magico. La magia è nel percepire segnali che forse stanno lì da tempo, ma che non sempre riusciamo a cogliere. Nella prima metà del film, Eva già inizia a connettersi col suo corpo e col suo proprio potere, e se non trova segnali, li cerca. Così col personaggio di Agos, che Eva inizia a seguire. All’inizio sembrava impossibile, ma poi impara a seguire i propri desideri.



A.M: ecco, a proposito di Agos. Eva è un personaggio indimenticabile anche per il modo in cui s’imbatte nelle persone, le scopre, le scruta, ne resta colpita. Il personaggio chiave in questo senso è quello di Agos (interpretato da Vito Sanz), che vede una sera affacciato a un ponte e arriva persino a seguire. Un enigma che incontra un enigma. Viengono in mente le parole della canzone che Rafael Berrio interpreta nel precedente film che hai girato con Jonás Trueba, La Reconquista (2016): Y ahora que están al fin vencidos, sentados frente a frente,¿quién de los dos se atreverá a romper el silencio que los envuelve? Ti chiedo: di fronte ad Agos, da cosa è attratta Eva?

È un personaggio quello di Agos che la pone ad un crocevia. Eva gli si presenta come una persona che aiuta, che ascolta più che parlare, che si fa carico di tutti i problemi del mondo, come se volesse salvarlo; ma a ben vedere, forse lei stessa ha bisogno di essere salvata. È questo che l’attrae di Agos, essere costretta a riconsiderare il ruolo che ricopre abitualmente quando si trova con lui..


A.M: infine, nel tuo lessico cinematografico, cosa vuol dire la verginità del titolo?

I.A: significa non dare per scontata la tua vita e provare a guardarla con occhi nuovi come se lo stessi facendo per la prima volta. Ma anche guardare la prima volta alla tua città e ai tuoi amici. È una verginità scelta, un’attitudine di vita. Si tratta di ripulire lo sguardo: non è verginità nella concezione cristiana del termine, ma piuttosto implica liberarsi dai condizionamenti e cercare di alleggerire il carico.


A.M: c’era un libro di Antonio Muñoz Molina che si chiama I misteri di Madrid. Pensi che alla fine del film Eva sia per lo spettatore ancora uno dei misteri di Madrid?

I.A: spero di sì! Il mistero deve far parte di quell’insoddisfazione che ci spinge a continuare a cercare. Vale anche per me: continuo a vedere il film e a capirlo sempre di più, perché lo spirito de La virgen de agosto era quello di aprire qualcosa, e non di chiudersi in un significato. Chi vede il film conosce un po’ anche me, perché parte del mio lavoro con questo personaggio era quello di rendermi trasparente, di fare in modo che il film passasse attraverso di me e fare in modo che la gente potesse vedermi. C’era bisogno di molta fede per farlo, mi sono spesso chiesta durante le riprese se potesse mai interessare a qualcuno. Alla fine, chi ama il film arriva a conoscermi, ma spero non del tutto, altrimenti… qué horror! (ride, n.d.R.).


SCHEDA TECNICA DEL FILM LA VIRGEN DE AGOSTO 

Paese: Spagna
Anno: 2019

Genere: commedia, drammatico
Durata: 125'
Regia: Jonás Trueba
Sceneggiatura: Jonás Trueba, Itsaso Arana
Cast: Itsaso Arana, Vito Sanz, Joe Manjón, Isabelle Stoffel, Luis Heras, Mikele Urroz

Produzione: La virgen de agosto AIE, Los ilusos films

(immagini: fotogrammi dal film La Virgen de Agosto. In particolare, immagine principale: Itsaso Arana nella scena del fiume; all'interno, prima: Itsaso Arana a destra con Isabelle Stoffel; seconda: Itsaso Arana nella scena del terrazzo con due conoscenti; terza: Itsaso Arana con Vito Sanz, ossia Agos. Si ringrazia Javier Lafuente)


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