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MILANO, 17 MARZO 2016 - Lo scenario che pervade l’attuale Centrodestra (se ancora così possa esser definito) rappresenta uno dei principali temi della rivoluzionata conformazione politica italiana. Se appena otto anni fa, Silvio Berlusconi si apprestava a governare il Paese con una delle maggioranze più consistenti della storia repubblicana, oggi la road map della destra verso le elezioni nazionali 2018 appare densa di incertezze. [MORE]
In un quadro politico profondamente rinnovato dall’avvento del grillismo e dal boom leghista firmato Matteo Salvini, la destra liberale si mostra sempre più ignara dal punto di vista strategico, nonché debole dal punto di vista elettorale. Le difficoltà emerse negli ultimi giorni, tra fiacche gazebarie e dietrofront sulla linea Roma-Torino, pongono un doppio asse di fondo tra Destra e “Centrodestra”.
Il punto è da chiarire: si parte dalle elezioni romane e dalla iniziale scelta del candidato per la Capitale. Il nome ricade sull’ex numero uno della Protezione civile Guido Bertolaso: la proposta è tutta di Silvio Berlusconi, ed inizialmente trova il consenso degli alleati, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Poi, come si diceva, il dietrofront. Con Meloni che non scioglie le proprie riserve su una candidatura, ed un Salvini lesto ad incitare la stessa perché ormai Bertolaso non convince più (o meglio, non ha mai convinto). Ecco, in questo elevato grado di aleatorietà, venir fuori l’ingenuità ‘berluscolasiana’: una donna incinta non può fare il sindaco a Roma. E’ il pretesto giusto per Meloni e Salvini: tagliare fuori Berlusconi, comunque vada a Roma, perché vincere non è una priorità ma un problema di non poco conto in vista delle elezioni “vere”, quelle del 2018, che consegneranno le chiavi del Paese. Governare Roma è complesso, farlo dopo Mafia Capitale deve essere una vera tragedia.
Giorgia Meloni fiuta così la possibilità del ribaltone: c’è una posizione da tutelare sì, quella di una donna che non può subire dichiarazioni come quelle dell’ex Cav o di Guido Bertolaso, ma in realtà c’è molto altro. Una strategia da delineare e una destra da (ri)formare: quella con Salvini, lepenista e creatrice di un consenso basato sul dissenso generale nei confronti della politica, ad opera di una parte dell’elettorato raggomitolato nella paura e a caccia di un sostenuto desiderio di rassicurazione.
Forse è proprio questo l’errore di Berlusconi: l’interpretazione del dissenso. Un dissenso che ormai, come accade nel resto dell’Europa devastata dall’antieuropeismo e dagli svariati nazionalismi in campo, non può più essere definito e ricercato nel vecchiume del vocabolo “moderato” (l’esperienza di Trump, persino negli Usa completa questa visione). Dissenso che non avrebbe più potuto (e dovuto) continuare a cavalcare da protagonista (considerata la superiorità leghista nei sondaggi) e l’assist salviniano di fare squadra. Fare squadra, perché le rivoluzioni liberali tanto promesse quanto fallite, sono lo specchio di un Centrodestra smarrito e dissoltosi con le dimissioni invocate dall’Europa nel 2011.
L’evoluzione diventa così radicale e la morte politica del Centrodestra lascia il campo ad una nuova destra, che con Meloni e Salvini si appresta a fare blocco comune, inserendosi nell’ambito delle tre principali forze del Paese. Certo, bisognerà valutarne attendibilità e risultati ma intanto lo scopo della candidatura della Meloni pare chiaro. Dire addio a Berlusconi e guadagnare un briciolo di credibilità: quel tanto che basta per comprendere la evidente scomodità di una nuova alleanza berlusconiana, con il rischio di tornare ad essere gli alleati di comodo e non quelli maggioritari. Meloni a Roma non è né una battaglia a tutela e difesa della dignità femminile e materna, né il desiderio di ottenere il ballottaggio (come invocato da Salvini): è semplicemente desiderio di rafforzare il consenso di Fdi, considerata la difficile ipotesi di catalizzare una vicenda mai così intricata. Con in campo Bertolaso per Forza Italia, Marchini per l’elettorato alfaniano e moderato, Storace per La Destra e Meloni per Lega-Fdi, le possibilità di giungere a Roma al ballottaggio sono ridotte al lumicino, a vantaggio di un probabile finale tra M5S e Pd, con Raggi e Giachetti pronti al testa a testa in un test elettorale di vitale importanza per tutto il quadro politico, esecutivo Renzi compreso. La stessa strategia romana si delinea anche a Torino, con il ripudio dell’altro candidato berlusconiano, Osvaldo Napoli. Qui, il ribaltone è raddoppiato. «Osvaldo Napoli non è un candidato valido, si è perso troppo tempo. Se Berlusconi non vuole politici, ma imprenditori e professionisti, per me la persona giusta è il notaio Alberto Morano». Salvini docet. Curioso come, la ricerca di candidati lontani dalla politica, provenga da professionisti stessi della politica o da coloro che sostengono la possibilità che una donna incinta possa fare il sindaco di Roma ma non il ministro per la Pubblica Amministrazione. Va da sé che la battaglia è sulla leadership, ricercata da Salvini e smorzata da Berlusconi con candidati troppo vicini all’universo Forza Italia. Al momento ad uscirne con le ossa rotte, per quanto possa sembrar strano, non è l’uno o l’altro personaggio politico ma l’integrità di quel Centrodestra moderato e liberale, inghiottito da un populismo in salsa estremista. Mentre Salvini e Meloni godono (per ora). Dopotutto, dare per morto (politicamente e metaforicamente) l'ex Cavaliere è sempre stato uno dei principali errori politici degli avversari e dell’antiberlusconismo stesso.
Cosimo Cataleta