Intervista a Olga Lucovnicova, Orso d’Oro a Berlino: “In My Uncle Tudor il mio trauma universale"
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Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, My Uncle Tudor di Olga Lucovnicova: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
Il silenzio è d’oro, ma a volte lo è anche la parola. All’ultimo Festival di Berlino, Olga Lucovnicova ha vinto l’Orso d’Oro col cortometraggio documentario My Uncle Tudor in cui squarcia il velo del silenzio su un traumatico episodio dell’infanzia, parlando con il suo “nanu” (che non è lo “zio” carnale del titolo internazionale, bensì una sorta di padrino di Battesimo, come ci spiega la regista nella prima domanda dell’intervista). Ma il film è molto di più: un’immersione personale e profondamente poetica nella casa d’infanzia, in Moldova, tra tavolate familiari, il giardino dove coglieva, bambina, ciliegie e fragole, una canzone, le preghiere, i racconti. “quando mostri qualcosa da dentro puoi far vedere cose che gli altri non riescono a far vedere”, mi dice la regista, a telecamere spente. Un posto delle fragole, dunque, per dirlo alla Bergman, tutto memoria, anche quando la memoria è disturbante e fa riaffiorare il trauma; senza però rinunciare alla bellezza, dietro la cortina della nostalgia di un’infanzia felice, anche se violata.
IL TRAILER DI MY UNCLE TUDOR
PERCHÉ INNAMORARSI DI MY UNCLE TUDOR
Sin dalle prime scene, My Uncle Tudor manifesta la poesia di un ricordo da mettere a fuoco. Nella casa in Moldova, tra tappeti colorati, arredi che raccontano la storia di generazioni, porte e finestre che si spalancano sul ricordo personale, la regista Olga Lucovnicova gira un documentario impregnato di bellezza, ma di profonda complessità: oltre agli interni fascinosi, spesso spiati dalla macchina da presa a distanza o ingranditi in close-up, c’è la conversazione con il padrino (il “nanu Tudor” del titolo originale), da cui affiora un trauma sepolto nella memoria; e oltre ai frammenti della propria storia, così personale, c’è una riflessione di più ampia portata sull’infanzia, sul ricordo, sulla famiglia. Cinema del reale, realmente incantevole per gli occhi.
L’INTERVISTA: OLGA LUCOVNICOVA RACCONTA MY UNCLE TUDOR
ANTONIO MAIORINO: serve subito una precisazione sul titolo originale del film: Nanu Tudor. Il titolo inglese è My Uncle Tudor, ma mi spiegavi che il “nanu” nel tuo paese, la Moldova, non è esattamente lo “zio” della traduzione inglese.
OLGA LUCOVNICOVA: in effetti "nanu" in rumeno non è lo zio, ma qualcosa di simile al padrino, ossia una persona presente alla cerimonia di cristianizzazione in chiesa (come quando il bambino è battezzato con l’acqua), con la differenza rispetto al padrino che un bambino può avere più “nanu”. Tudor è il mio “nanu” perché era in chiesa quando sono stata cristianizzata, ma non abbiamo relazioni di sangue. In inglese il termine è intraducibile.
A.M: sostanzialmente anche in italiano, ma d’ora in poi useremo il termine più vicino, ossia “padrino”, tenendo comunque a mente la tua precisazione sul concetto di “nanu”.
O.L: d’accordo.
A.M: in generale, la prima idea che un regista ha per lo sviluppo del proprio film può essere considerato il momento in cui il film nasce a livello creativo, il suo “battesimo” cinematografico. È un momento positivo, come ogni nascita. Ho visto però che quando l’organizzazione del Festival di Berlino ti ha annunciato che My Uncle Tudor aveva vinto l’Orso d’Oro, hai detto tra le altre cose che “fare questo film è stata una decisione difficile”. Perché?
O.L: My Uncle Tudor è il mio primo film davvero personale e il processo di produzione è totalmente diverso rispetto a quando giri un film sugli altri. Studio cinema dal 2011 e puoi ben immaginare la quantità di corti che ho girato, ma erano tutti sugli altri: non avevo mai avuto l’idea di basare la realizzazione di un film su di un’esplorazione introspettiva. Sapevo che sarebbe stata una sfida, ma non pensavo risultasse così difficile. È interessante, ma dura allo stesso tempo.
A.M: come sei arrivata a questo cambio di rotta che fa di te il centro del processo filmico?
O.L: ho avuto questa idea mentre giravo il mio film precedente. Avevo dei problemi con i protagonisti perché mi piace andare in profondità con la loro psicologia e le loro difficoltà, ma capisco che sia difficile aprirsi dinanzi alla macchina da presa e rendere pubblici momenti di vita privata. Ogni volta che ho avuto la possibilità di farlo, ho prima dovuto superare una barriera. Sono quindi arrivata al punto di chiedermi: se pretendo così tanto dagli altri, perché non posso a mia volta dare qualcosa di me? Ho deciso allora di girare un film su di me per vedere come ci si sentisse e penso di aver così trovato il mio stile: anche il mio prossimo progetto sarà “personale”. Ma il film non è solo su me stessa: ho fatto tante ricerche sull’infanzia, sulla memoria, sulla psicologia, cercando di mettere molto di più rispetto alla mia storia per farne una storia universale.
A.M: vista l’esperienza traumatica che hai fatto affiorare in My Uncle Tudor parlando col tuo padrino in presa diretta, hai definito questo film “una terapia, un sollievo”. Dal momento che l’hai appena definita una “storia universale”, pensi che possa essere una sorta di terapia anche per chi guarda il film, e non solo per chi lo gira?
O.L: penso che ogni mio film, in realtà, sia una sorta di terapia, anche quando non è solo su di me, perché per me è difficile esprimermi a parole: il cinema mi dà la possibilità di esprimermi attraverso oggetti e immagini. In questo modo il film diventa terapeutico come processo di espressione, a prescindere dal soggetto. Una volta ho girato un film su una donna colpita dal cancro e non è stato facile, perché mia nonna era morta col cancro due anni prima che nascessi e non ho mai potuto incontrarla. Ogni film, dunque, ha in qualche modo un grado di terapeuticità. Quanto all’universalità di My Uncle Tudor, è molto interessante vedere come la gente possa recepirlo. Il corto è stato girato in Moldova, un paese molto piccolo tra Ucraina e Romania, che molta gente nemmeno sa dove si trovi o quale ne sia la lingua. Trovo interessante che a volte gente dall’estero, da paesi lontani come per esempio la Cina, capisca ciò che volevo dire, mentre la gente del mio paese meno. A volte sento persino che il film è più “universale” che “locale”.
A.M: non vorrei fare quel tipo di critico ossessionato dalla ricerca del significato in ogni singola scena, ma ho spesso commentato nelle mie interviste che l’inizio di un film invita il regista una particolare "densità di significato", perché si tratta di calibrare il primo impatto con lo spettatore. Ancor di più nel minutaggio limitato del corto, aggiungerei. Ebbene, ho molto amato il prologo di My Uncle Tudor: tende e cortine finemente ricamate, il vento che soffia, scene di vita domestica quasi spiate da finestre e porte. Sembra una penombra dell’anima che viene gradualmente alla luce. Come hai concepito questo incipit?
O.L: il mio film è ricco di colori e contrasti di umore perché inizia come un viaggio bello e nostalgico nella memoria. Ho ricordi molto belli nella casa dei miei nonni. Questa casa ha più di cento anni e intere generazioni della mia famiglia ci sono cresciute. Sono cresciuta tra tanto amore, i miei genitori erano i miei migliori amici. Ho voluto mostrare questo umore da casa estiva tipo cottage circondato dagli alberi, ma poi effettivamente nel corso del film le cose cambiano gradualmente. Hai ragione quando in merito ai corti: c’è un tempo limitato e non puoi sprecarlo per cose inutili, devi girare un film compatto e dire molte cose in ogni ripresa. La produzione del film è stata di sette mesi di cui cinque solo di preproduzione: ricerche accademiche, molta lettura, la scrittura della sceneggiatura, la pianificazione dello storyboard. Solo con questa preparazione, poi, è stato facile trovare le riprese giuste durante il film. Sapevo di voler prestare molta attenzione a queste tende bianche che sono ovunque in casa, alle finestre, alle porte. Pensa che il primo titolo del film era “Il velo bianco” proprio perché volevo utilizzare questo motivo ricorrente.
A.M: My Uncle Tudor diventa poi molto frontale nel soggetto quando, in questa esplorazione nostalgica della casa, ti ritrovi ad avere una conversazione approfondita col tuo padrino, da cui emergono alcuni suoi atteggiamenti avuti con te durante la tua infanzia e il trauma che ne consegue. Ciò che mi colpisce, però, è che alla frontalità del tema non corrisponda la frontalità della forma: mentre parli di tutto ciò col tuo padrino, la macchina da presa non è presente, divaga altrove su altri dettagli e primi piani. Perché questa discrepanza tra montaggio sonoro e montaggio visivo?
O.L: i miei ricordi d’infanzia, soprattutto di quell’estate in cui avevo nove anni, sono molto frammentari. Non ricordo esattamente cosa fosse successo, avevo solo la sensazione che qualcosa non andasse bene, ma non sapevo se fosse reale o meno. Forse era un meccanismo psicologico di autodifesa. All’inizio non avevo pianificato di avere una discussione con mio padrino. Ho deciso di farlo nell’ultima parte delle riprese perché vedevo che il mio padrino andava tutti i giorni in giardino a passare del tempo su una panca sotto gli alberi, dove io stessa ho molti ricordi. Ho pensato che forse stesse rievocando momenti della propria vita. Quando poi abbiamo cominciato a parlare, in realtà abbiamo avuto una conversazione di due ore su tanti altri temi: cose buone e cattive, i suoi rimpianti, cosa faceva di male da bambino. Avevo un registratore di fronte a me durante la conversazione e non immaginavo cosa potesse venirne fuori. Ancora adesso, quando ci ripenso, non so come io abbia fatto a sostenere questa conversazione, e lui stesso ha visto che quanto fosse difficile per me, ma alla fine la mia troupe cinematografica era formata da un solo membro: me stessa.
A.M: questo vuol dire da un lato maggiore libertà nell’esporti, dall’altro, immagino, qualche difficoltà tecnica in più.
O.L: ero io a dirigere, io ad essere la protagonista, io a registrare suono e immagini. Anche dal punto di vista tecnico sarebbe stato impossibile avere la macchina da presa durante quelle riprese. Non ho pensato di avere un operatore con me perché sarebbe stato complicato a causa della pandemia. Sarebbe dovuto venire in Moldova dal Belgio. Se ci fosse stata la macchina da presa, la conversazione non sarebbe stata in effetti così aperta. Nel documentario bisogna sempre cercare di capire quale sia la giusta distanza, è difficile far dimenticare alle persone la presenza della macchina da presa. È stato importante il fatto che fossi da sola a filmare con la mia famiglia, ha portato a questa intimità grazie alla quale ho potuto cogliere momenti naturali con le mie zie e con mia nonna.
A.M: di questi momenti, mi colpisce l’enfasi sulla religione e sul sonno. La prima, con i riferimenti al peccato, le icone nelle stanze, le preghiere; il secondo, con l’attenzione a dormite e pisolini. Sembra quasi un sonno della coscienza.
O.L: anche in una famiglia ideale possono succedere cose che traumatizzano i figli senza che i membri se ne avvedano. Il sonno è il silenzio e l’impossibilità di vedere l’immagine nella propria interezza. Ho voluto mostrare anche altri aspetti della vita del mio padrino perché è comunque un membro esemplare della famiglia e non ha cattive abitudini. Quanto alla religione, è una parte importante del mio paese e della mia famiglia, difficile da spiegare a parole. (Pensa in silenzio per diversi secondi, n.d.R.) Sono cresciuta in un clima religioso. La canzone che si sente alla fine, che non ho tradotto, è molto metaforica: è una canzone sul dolore che provi ma che non riesci ad esprimere e tieni per te, e la religione ti aiuta a superare in silenzio il tuo dolore interiore. All’inizio volevo addirittura girare in primavera per mostrare le vacanze di Pasqua, quando andiamo in chiesa a parlare col prete dei nostri peccati e dei nostri dolori, ma ho dovuto cambiare i piani ancora una volta a causa della pandemia. Ciononostante, non ho voluto rinunciare a mostrare l’aspetto della religione nel corto.
A.M: ma c’è anche un’altra cosa a cui non hai voluto rinunciare: la bellezza. Se dovessi indicare a parole un movimento della macchina da presa che ben rappresenta il tuo film ed evoca My Uncle Tudor, mi riferirei a quello del piano sequenza lento che si sofferma su dettagli in primo piano. My Uncle Tudor è un documentario, ed è anche un film che rievoca un trauma; eppure, all’interno di questo percorso, si nota la volontà autoriale di non rinunciare alla ricerca della bellezza.
O.L: prima di girare il film, ho visto molti altri documentari ed è stato difficile trovare ciò che volevo mostrare. Poi un mio professore mi ha raccomandato il film Love is potatoes di Aliona van der Horst per il modo in cui va nella casa dei nonni in Russia dall’Olanda, e lo fa con questo stile di cinema lento, questa macchina da presa che gira per la casa. Mi ha ispirato, e la cosa curiosa è che la stessa regista fosse nella nostra giuria. Alla fine, le ho detto che il suo film mi aveva ispirato e lei, giustamente, ha replicato: “Sì, ho visto! (ride, n.d.R.). Nella casa ci sono elementi della tradizione architettonica e tappeti colorati realizzati dai miei bisnonni che parlano del mio paese e della nostra cultura. La mia idea iniziale, in pre-produzione, era di parlare dei miei sentimenti attraverso elementi architettonici e decorativi della casa, perché – ci tengo a ribadirlo – il film non è sul mio padrino Tudor, ma su di me.
A.M: ci sono, appunto, molti modi per parlare di sé in un documentario. Mi colpisce una scena in cui tua nonna si rivolge direttamente a te e dice: “Dimmi qualcosa anche tu, Olga”. Questo mi spinge a interrogarti sul ruolo del documentarista. Sai che esiste una scuola di pensiero per la quale il documentarista deve rimanere invisibile, ma è solo un tipo specifico di estetica; altri, invece, non sono contrari all’intervento diretto del regista. Qual è la tua posizione in merito?
O.L: è quello che ti dicevo all’inizio sui miei primi film: ero invisibile! Questo è mio primo film in cui sono visibile, un documentario in prima persona, e ho scoperto di amare questo tipo di cinema. Sin dal primo momento ho voluto essere dietro la macchina da presa e interagire con le persone per aggiungere sincerità al film. Nel documentario tradizionale il regista resta invisibile, soprattutto nei soggetti storici, in cui si cerca di essere neutrali e diretti, mentre nel mio film ho voluto essere il più possibile onesta e mostrare la mia prospettiva. Diversamente sarebbe stata una forma di manipolazione. Questo tipo di cinema, così moderno, l’ho scoperto in Belgio alla fine dei miei studi quando ho visto i film di Chantal Akerman e i suoi documentari in prima persona. Per me è stata una folgorazione perché nel mio paese c’è una tradizione cinematografica diversa: il film della Moldova è poetico, e d’altro canto lo si vede anche in My Uncle Tudor per l’uso di simboli e metafore. Ho comunque studiato sei anni in Moldova, il mio background si fa sentire. Lì non avevamo molto cinema in prima persona, è qui in Belgio che ho visto per la prima volta questo stile e mi sono detta: “wow, si può fare anche questo!”.
A.M: parlando di metafore, mi viene in mente che qualche settimana fa è emerso un particolare interessante durante l’intervista a P.S. Vinothraj sul film Pebbles, vincitore dell’ultimo Festival di Rotterdam. Il regista mi raccontava che durante i titoli di coda si sente in sottofondo lo stesso rumore dell’ultima scena, una donna che preleva lentamente acqua da un pozzo con un secchio, e che non tutta la critica ha capito che gli stessi titoli di coda sono una parte del film, proprio in ragione di questo montaggio sonoro che ne prolunga il significato. Non svelerò l’ultima immagine del tuo film, ma noto che durante i titoli di coda si sentono i tuoi familiari cantare quella canzone di cui mi parlavi prima. Anche nel tuo film si può dire che i credits facciano parte del film in modo rilevante?
O.L: nel mio caso la canzone comincia molto prima dei titoli di coda. L’ho voluta fortemente, cantata dalle mie zie; è una vecchia canzone popolare rumena che ho imparato in casa ed è sul dolore che non si riesce a esternare, come ti dicevo. Faccio notare che la canzone non è cantata da un coro, ma attorno al tavolo: senti infatti i rumori delle posate e dei piatti. È come tornare al tavolo da pranzo che nel film è fondamentale, in quanto è lì che mi presento per la prima volta all’inizio del film, ma poi lo stesso tavolo torna in tre modi diversi: la prima volta si vede in modo normale, con me al centro; poi non si vedono le persone, perché sono fuori fuoco e mi focalizzo sui dettagli; infine, schermo nero e solo suono. Non penso che finora questo aspetto sia stato osservato da alcuno. Il film è un prodotto artistico talmente complesso che ognuno può coglierne diverse sfaccettature, e questo non vale solo per il mio film, bensì per il cinema in generale.
A.M: My Uncle Tudor, dunque, è per te una svolta importante: a livello personale, per ciò che emerge dalla conversazione col tuo padrino; a livello artistico, per questo nuovo modo personale di girare film. Qual è, allora, il tuo prossimo passo?
O.L: il mio prossimo film è basato sull’archivio di mio padre perché per molti anni ha raccolto lettere e vecchie fotografie che solo ora mi ha permesso di vedere. Ho trovato lettere di mia nonna, che, come ho già detto, ha avuto il cancro ed è morta due anni prima che nascessi, ma non a causa del cancro: è un mistero. È una figlia della guerra ed ha attraversato l’età sovietica; vorrei capire come la sua vita sia riflessa nella mia personalità. Sarà il mio primo lungometraggio in cui lavorerò con questi frammenti di memoria e direi che è il continuo di questa esplorazione del ricordo e del trauma ma in un modo più ampio, perché voglio capire come la memoria generazionale sia influenzata da memorie traumatiche del passato. Si tratta di uno studio sul funzionamento delle memorie collettive. Questo argomento è molto importante soprattutto ora che durante la pandemia stanno venendo fuori problemi della società che la crisi stessa fa affiorare e penso che provengano spesso dai tempi di guerra. Ci terrei a capire come fanno ad affiorare in tempi di crisi. Per esempio, hai mai sognato di cadere? È un sogno genetico che viene trasmesso da generazioni. Ho letto un libro di Jack London in cui si dice che questo sogno viene dai nostri antenati che vivevano sugli alberi e cadevano spesso, così perdevano spesso parenti e amici. Nel sogno non vediamo mai la collisione, perché è un’esperienza che i nostri antenati non hanno fatto: erano i loro compagni a morire così, non loro in prima persona. La curiosità su questo aspetto mi ha spinto a riflettere sulle memorie che provengono dal passato e questo è ciò su cui sto lavorando al momento. Il progetto è in fase di sviluppo, vedremo.
SCHEDA DEL FILM
ANNO: 2021
PAESE: Belgio, Portogallo, Ungheria
GENERE: documentario
DURATA: 20'
REGIA: Olga Lucovnicova
FOTOGRAFIA: Olga Lucovnicova
MONTAGGIO: Olga Lucovnicova
PRODUZIONE: Luca School of Arts
CO-PRODUZIONE: Universidade Lusófona, Lisbona; University of Film and Arts, Budapest
VENDITE: Luca School of Arts | [email protected]
(immagini: in copertina, terza e quarta immagine, fotogrammi da My Uncle Tudor; seconda immagine, Olga Lucovnicova reagisce all'annuncio in diretta della vittoria di My Uncle Tudor al Festival di Berlino 2021, dal canale Youtube della Berlinale)