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CATANZARO, 29 agosto 2018 - Gli ultimi tragici incidenti stradali verificatisi in Calabria, ancora una volta in particolare sulla strada statale 106, fanno riflettere alquanto riguardo ad una problematica ogni giorno più calzante. [MORE]
Paura, morti, disastri, tormento e sdegno sono soltanto alcuni dei tanti termini chiave che si possono associare pertanto a siffatti avvenimenti. Ma quello che viene da chiedersi a questo punto è se nel corso di un incidente stradale, grave o meno che sia, si possa parlare di vittima o carnefice in seguito ad un evento di tale tipo. Intanto, prima di giungere alla riflessione seguente, di certo più esistenzialistica che pragmatica, conviene andare un attimo a ritroso per capire, almeno a grandi linee, come sia la situazione attuale.
Secondo il “Corriere della Calabria”, in un articolo del 29 dicembre 2017, stilato dunque al termine dello scorso anno, o quasi, e intitolato “La statale 106 sempre più strada della morte”, l’Italia sarebbe, insieme alla Francia, in vetta alla classifica europea per gli incidenti mortali. Secondo l’Istat, infatti, nel 2016, anno in cui è stata introdotta la legge sull’omicidio stradale, si sono verificati 175.791 incidenti con lesioni a persone e i morti sono stati 3.823. La media giornaliera sarebbe dunque di 428 incidenti stradali con lesioni a persone, 9 decessi e 683 feriti.
Tali dati erano stati riportati a loro volta in una nota dell’associazione “Basta Vittime sulla 106”, nata per fermare la strage stradale sulla statale ionica 106 calabrese e dare conforto ai familiari delle vittime o alle stesse vittime, se sopravvissute. Tra le altre cose, l’associazione promuove l’individuazione e la conoscenza dei problemi dell’incidentalità stradale e delle sue conseguenze e sensibilizza attraverso l’attuazione di campagne, convegni, manifestazioni e iniziative inerenti al diritto alla mobilità, alla sicurezza sulle strade e alla giustizia per le vittime e superstiti della strada.
Ed ecco che si torna al titolo dell’articolo del Corriere. Il presidente dell’associazione Pugliese aveva infatti affermato che in Calabria, nel 2016, circa un decesso su due è avvenuto sulla famigerata 106, tristemente nota come “strada della morte”. La qual cosa, allarmando oltremodo le associazioni e gli enti locali, ha spinto la regione a richiedere al governo nazionale un piano di investimenti per l’ammodernamento della strada che attraversa la Calabria, la Basilicata e la Puglia e si estende per 491 km da Reggio Calabria a Taranto.
Insomma, un problema ancora apparentemente senza soluzione. E tantissime sono le famiglie che subiscono gravi perdite e piombano nel dolore più atroce. Non solo le famiglie di coloro che, purtroppo, hanno perso tragicamente la vita, venendo a creare nei propri nuclei d’origine una mancanza incolmabile. In quei casi non resta altro che il rispettoso silenzio dinnanzi ad un destino così atroce. Sembra tuttavia impensabile o assurdo per alcuni, ma un grandissimo stato di amarezza e un irreversibile stravolgimento della vita si hanno anche in coloro che, per lo più nolenti, hanno causato i famigerati incidenti stradali, assumendo l’ignobile ruolo di carnefici.
Si potrebbe parlare allora in questi casi di “carnefici” che diventano “vittime”? In che modo e, soprattutto, come è possibile? Qualcuno potrebbe allora obiettare. Sensi di colpa, rimorsi, fantasmi, tormenti e flussi di coscienza sono alla base di chi, fatalmente, ha causato i cosiddetti incidenti e ne è rimasto coinvolto, uscito tuttavia illeso. È proprio da quel momento, la maggior parte delle volte, che per quelle persone, o alcune di loro, la vita restante si configura soltanto come un inesorabile calvario fino alla morte, costellato di tormenti, afflizione, sensi di colpa, sgomento e rimorsi. Che senso ha dunque, talvolta, voler forzatamente puntare il dito contro qualcuno quando accadono siffatte fatalità?
Senza generalizzare, tuttavia, vista l’intricata delicatezza della questione, l’unico atteggiamento da tenere nei confronti di tutti, pur nel rispetto della legge e delle giuste ed eque sanzioni da applicare contro chi ha sbagliato, sarebbe soltanto, come sempre, il religioso e ossequioso silenzio. Del resto, come già gli antichi Romani dicevano: “morte nihil certius est, nihil vero incertius quam eius hora”, ovvero “nulla è più certo della morte, anche se nulla è più incerto della sua ora”.
Con siffatta convinzione, cioè che la morte è ciò che fa più paura agli uomini e che purtroppo a volte giunge inaspettata e ineffabile prima del tempo, chi resta vivo può almeno offrire spazio al rispetto per i suoi simili e al silenzio per chi non c’è più. Solo in questo modo, finalmente, forse non ci saranno più carnefici né vittime.