"Il bell'Antonio": virilità ed impotenza nella Catania brancatiana
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"Il bell'Antonio": virilità ed impotenza nella Catania brancatiana

martedì 23 dicembre, 2014

CATANIA, 23 DICEMBRE 2014 - Riceviamo e pubblichiamo. Antonio è bellissimo e pieno di fascino, quasi enigmatico, e viene visto come una sorta di divinità. Le donne svengono al suo passaggio, gli uomini ne invidiano la grazia. Il padre decanta la virilità di questo figlio unico, la gente pensa che lui sia influente e vicino a Mussolini, la città non parla d’altro che delle sue doti. Sono, com’è noto, le premesse da cui si snoderà “Il Bell’Antonio”- il secondo romanzo italiano, dopo “Il Gattopardo”, più letto ed amato nel mondo: un lucido e meraviglioso affresco dell’Italia nell’impietoso ventennio fascista, attraverso il quale viene fotografata la microstoria di una famiglia siciliana, che la penna ironica e graffiante di Vitaliano Brancati volle ambientare a Catania.[MORE]

Ed è proprio nella città etnea che approda l’omonimo spettacolo, alla sala Verga dal 23 al 30 dicembre, trovando così il suo luogo naturale durante le festività natalizie. Il Teatro Stabile di Catania, diretto dal direttore Giuseppe Dipasquale, ha fortemente voluto sul palco la produzione targata Lux Teatro, nata da un progetto per rendere omaggio al grande scrittore di Pachino nei sessant’anni dalla morte.
Un testo raffinato e coinvolgente, con la straordinaria regia di Giancarlo Sepe e la riduzione a quattro mani curata dalla figlia dello scrittore, Antonia- nata dal matrimonio con Anna Proclemer- e Simona Celi, che si sono impegnate a riportare fedelmente la scrittura brancatiana.

Per l’occasione, dopo molti anni, si ricostruisce una coppia formata da due attori tra i più acclamati e amati della scena italiana: Andrea Giordana (nei panni del gretto Alfio Magnano) e Giancarlo Zanetti (nel ruolo diametralmente opposto dello zio Ermenegildo, una sorta di filosofo un po' misantropo), confermando così un robusto sodalizio iniziato nel 1978. Luchino Giordana incarnerà, invece, il protagonista evocato dal titolo, in un bel gioco teatrale che dalla vita reale porta, un padre e un figlio, ad interpretare gli stessi ruoli in palcoscenico.
Ad affiancarli artisti di spicco come la stessa Simona Celi, Elena Callegari, Michele De Marchi, Natale Russo, Alessandro Romano e Giorgia Visani. Le scene sono di Carlo De Marino, mentre i costumi di Francesca Cannavò.

Brancati si riconferma così presenza immancabile nella programmazione dello Stabile catanese che al genio dell’autore ha sempre riservato un posto prestigioso nel proprio repertorio. Tant’è vero, infatti, che “La Governante”- celebre pièce “scandalo” del 1952- è stata prodotta negli ultimi anni per ben due volte dall’ente etneo in due diversi e pregevoli allestimenti, affidati a registi di altissima caratura artistica, come Walter Pagliaro e Maurizio Scaparro, che hanno conosciuto tournèe applauditissime e gloriose in giro per l’Italia. In entrambi i casi, nell’impegnativo ruolo di Leopoldo Platania, si è distinto magistralmente Pippo Pattavina, punta di diamante del TSC.

Impossibile, d’altronde, nel panorama teatrale siciliano fare a meno dello spessore intellettuale di Brancati, con la sua mirabile e unica capacità di scrutare, facendosene gioco, le pieghe oscure della società di quel tempo: la sua scrittura è bella, sagace e piena di ironia e, anche ne “Il Bell’Antonio”, è pronta a restituirci lo spirito di una Sicilia che viene raccontata con grande amore, lontana dagli stereotipi e dai facili ammiccamenti. Qui la sensualità, la carnalità, le cose taciute, i segreti del talamo, l’impotenza o il peso di un ruolo non voluto sono solo variabili di una chiave di lettura della realtà. Sullo sfondo, infatti, c’è il fascismo locale, macchiettistico e inadeguato, con tutta la sua retorica di costrizione e costruzione del ridicolo, com’è ben sottolineato nello spettacolo.

A differenza del celebre film di Mauro Bolognini con Marcello Mastroianni che spostava la vicenda negli anni Cinquanta- il regista Sepe riporta, infatti, la trama all’ambientazione originale del romanzo, ovvero il 1934, dove la disavventura di Antonio è metafora e specchio di una macrotragedia, quella di dimensione epocale del nazifascismo e del suo sogno di onnipotenza.

In una Catania impregnata dalla piaga del “machismo”, Antonio- chiuso in un destino contrario alla propria natura- diverrà il bersaglio della maldicenza. Con la fine del suo matrimonio, assisterà inerme alla frantumazione del suo Io, alla disgregazione della sua famiglia, alla distruzione della sua città e di una società intera.

Fonte: Ufficio Stampa Teatro Stabile di Catania


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