Gli uomini d'oro, intervista a Vincenzo Alfieri: "Sono fan di idee folli. De Luigi? Una scommessa"
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Gli uomini d'oro, intervista a Vincenzo Alfieri: "Sono fan di idee folli. De Luigi? Una scommessa"

martedì 19 novembre, 2019

È Nord profondo, la Torino del 1996, ma non profondamente diverso dall’Italia di oggi. Lì Vincenzo Alfieri ambienta Gli uomini d’oro, ispirandosi liberamente ad un fatto di cronaca della metà degli anni ’90, di cui riannoda il nastro incrociando in un racconto teso l’heist movie con il noir. Una storia in tre capitoli, calcolata ma non fredda. Mentre freddo, finanche con qualche brivido, è il capoluogo del Piemonte, dove i tre protagonisti, tra sogno e frustrazione, audacia ed esitazione, congegnano un complesso colpo alle Poste. Verrebbe da dire che la mente è Meroni (Giampaolo Morelli), ma c’è poco di cerebrale in questo impiegato postale, ragazzone spiccatamente partenopeo, che ama ammiccare al lusso e alle belle donne. Lo spunto è il suo, certo, e presto suggestiona anche Luciano (Giuseppe Ragone), emigrante supertifoso della Juve; ma il piano, in realtà, decolla quando si allarga a Zago (Fabio De Luigi), buon padre di famiglia piuttosto frustrato, che non esita a trascinarsi l’amico, il Lupo (Edoardo Leo), ex pugile al soldo – per quattro soldi – di uno stilista-strozzino. E come in ogni noir, o forse solo in ogni storia da cinema, occhio alle donne. Sotto la luce del neon e nell’eco della disco, seguiamo a buon passo i tre protagonisti in questo pasticciaccio italiano. Ne abbiamo parlato col regista e sceneggiatore Vincenzo Alfieri, al secondo film dietro la macchina da presa dopo I peggiori.

ANTONIO MAIORINO: nei titoli di coda del film Gli uomini d’oro, tra i ringraziamenti di rito, compare quello a Renato Sannio (co-sceneggiatore insieme a te e Giuseppe Stasi) per averti fatto conoscere la storia. I peggiori lo definisti “un film di cuore”, che avevi immaginato a 16 anni. Cosa della storia de Gli uomini d’oro, prospettata da Renato, ti ha “colpito al cuore”, facendotela sembrare così invitante da poter diventare un film? 

VINCENZO ALFIERI: credo di avere molte cose in comune con ognuno dei personaggi. Ho cercato di trasferire dentro di loro delle cose che sono mie: è una cosa che cercherò sempre di fare se realizzerò altri film. Il sogno di Meroni è di avere un sogno ed io ho un sogno da quando ho 5 anni, che è il mio lavoro. A differenza sua, io faccio di tutto per ottenerlo con fatica, mentre lui cerca una scappatoia. Siccome sono molto critico nei confronti della società che viviamo oggi, ho voluto traferire parte di me sia in positivo che in negativo: nel personaggio, infatti, c’è’ sia qualcosa che ci accomuna, sia una critica verso le persone che si lamentano senza fare niente per cambiare la propria vita. Non a caso, Zago gli dice ad un certo punto: “basta! Hai rotto le palle, fa’ qualcosa o sta’ zitto”. Proprio a Zago, ossia il personaggio di De Luigi, mi accomuna invece il senso del dovere, così come quello della famiglia. Come il Lupo, poi, penso che tutti nella vita ci siamo sentiti schiacciati da qualcuno, nel suo caso uno strozzino. Io volevo fare in modo che le persone entrassero in sintonia con i personaggi riuscendo a capire perché compiano certe azioni, ma senza voler essere come loro. Oggi si parla di empatia con i personaggi: io non penso che si debba entrare in empatia o desiderare di essere come il protagonista, ma deve comprenderne le motivazioni.

In effetti si nota, prima ancora del complesso discorso sui generi, che nel film ci sia la forte esigenza di raccontare le vite dei personaggi, ognuno dei quali appare mosso da desideri, ma anche frenato da incertezze. Morelli, De Luigi, Leo: avete pensato ad una sceneggiatura che li facesse più incontrare scontrare?

Siamo partiti da chi fossero loro, trattandosi di una storia vera. Abbiamo studiato molto il caso. Abbiamo intervistato Meo Ponte che aveva seguito il caso per Repubblica, nonché alcuni carabinieri che avevano partecipato all’indagine; abbiamo letto il libro di Bruno Gambarotta ed infine abbiamo ottenuto un profilo dei personaggi. Fatto questo, abbiamo cercato di capire quali fossero le loro fragilità e come potessero entrare in conflitto al di la della storia vera. Nella storia vera, infatti, i conflitti tra di loro erano molto più superficiali. Anche qui possono sembrare superficiali, basti pensare alla lite per questioni calcistiche! Quello che però abbiamo tentato di fare è stato mascherare dietro una finta superficialità un problema enorme, cioè l’eterna rivalità tra Nord e Sud. Emerge, poi, il senso d’impotenza di un tifoso del Torino che guarda la sua squadra perdere 4 a 0 con la Juve: ad un certo punto fai fallo in area di rigore e becchi pure il quinto gol. Abbiamo ripetuto quella scena per dire due cose: primo che quei giocatori non mollano mai, ed è una cosa apprezzabile; secondo, che non mollano, certo, ma in modo stupido, perché se stai perdendo 4 a 0, che puoi fare più? Tutto questo si riflette anche nel carattere dei personaggi, con la differenza che Morelli è uno sbruffone ed un gagà che non dà peso alle conseguenze, mentre Leo è un tipo che non appena gli dici una cosa, sbrocca e ti mena. Sin dall’inizio, dunque, ci eravamo chiesti questo: come possono i nostri personaggi entrare in conflitto?

Se non integralmente un noir, Gli uomini d’oro ne ha comunque per larghi tratti le atmosfere e le cadenze. Il noir classico americano tende a caratterizzarsi per una forte impronta onirica e psicologica. Sembra invece che quando si debba fare un noir in Italia, sia inevitabile far venir fuori “un noir di costume”: in questo caso, lo si evince dal conflitto Nord\Sud, dalle contese calcistiche, da queste perenne mentalità del sotterfugio. A ben vedere, quanto racconta dell’Italia di oggi Gli uomini d’oro, pur essendo ambientato negli anni ’90?

Tantissimo, perché l’italia di oggi è figlia degli anni ‘90. È l’epoca del berlusconismo: ad un certo punto le persone hanno smesso di pensare a lavorare per ottenere e raggiungere il più velocemente possibile un risultato. È anche l’epoca delle baby pensioni, in cui vedevi gente che con 18 anni di lavoro decideva di starsene a casa a ricevere i soldi e non fare più niente. Oggi vedo che nell’epoca dei social network sta succedendo qualcosa di simile: gente attratta dalla facilità di ricchezza a cui si può arrivare con un post o un video. Quanto ai conflitti calcistici, siamo nel 2019, e la settimana scorsa nella partita di calcio Brescia – Verona è stato ingiuriato Balotelli con cori razzisti. Purtroppo questa è la situazione, non penso che l’Italia sia cambiata poi tanto.

A proposito degli anni 90: la tua operazione di recupero di quelle atmosfere è curata, ma non maniacale. Su quali elementi a livello sia visivo che sonoro hai puntato con maggiore vigore per trasportarci nel 1996. 

Non ho fatto una ricerca ossessiva degli anni ‘90, ho chiesto ai miei reparti di cercare un nostro linguaggio che si muovesse tra fine anni ’80 e inizio anni ‘90. Qualche critico ha scritto che non tutte le canzoni sono degli anni ’90 e la cosa mi ha fatto ridere, perché negli anni ’90 non ascolti solo la musica del decennio, ma anche degli anni ’80, ’70 e ’60. In più, quello che mi serviva era creare un’estetica forte che negli anni ’90 non c’era. I ’90 erano un po’ troppo simili ad oggi. Abbiamo creato anche lì una sorta di mash-up. Credo che quello che li rappresenti meglio nel film sia la scena iniziale in discoteca: lì sono riuscito a dare quella spensieratezza e quella voglie di ballare che c’era. Una volta si ballava davvero e si rimorchiava. È una scena tra le mie preferite, a cui voglio molto bene. Spero di aver trasmesso. Perché la musica per me è molto importante nel cinema come nella vita e la musica dell’epoca trasmetteva sensazioni positive.

Si fa presto, però, a dire noir. A tratti emergono delle note più leggere, specie col personaggio di Giuseppe Ragone. Ma soprattutto, i toni sono mutevoli, e la sensazione è che il film compia alcune virate stilistiche a seconda dei tre differenti capitoli. In che modo?

Assolutamente. Questa era la parte del difficile. Avevo tre capitoli con tre personaggi che vivono la loro vita in modo completamente diverso, quindi dovevo inevitabilmente adattare la regia, non potevo affidarmi ad uno stile unico. Allo stesso tempo, però, non doveva affiorare la sensazione di guardare un film diverso in ogni capitolo. Così, ho cambiato gli escamotage narrativi, l’uso delle musiche ed i movimenti di macchina, che per ogni capitolo sono diversi. Nel capitolo uno siamo stati più “classici” ed abbiamo usato molto i carrelli; nel capitolo tre si usa la macchina a mano; nel capitolo di Zago ci sono tutte “aree sbagliate”, con personaggi a bordo fotogramma. Volevo che lo spettatore si accorgesse anche di queste differenze.

Restiamo sulle inquadrature. Alcuni movimenti della macchina da presa sono arditi, avvolgenti. Ti chiedo: perché, allora, altri, in contrasto, sono ostinatamente frontali, con personaggi che sembrano bucare lo schermo con lo sguardo e guardare lo spettatore?

(RISPOSTA CON POSSIBILI SPOILER) A volte lo guardano proprio. Nel capitolo uno, quando Morelli capisce che la sua vita è in un cul-de-sac, guarda in macchina, il corridoio della sua stanza si allunga all’infinito come a dire che non uscirà mai da quella condizioni. Si ripropone la stessa cosa nel capitolo tre del Lupo, quando Edoardo Leo, conscio di essere sul punto di perdere la propria donna, la immagina ballare in discoteca e lei guarda in direzione dello spettatore, come se la verità ti guardasse in faccia e ti dicesse: è andata così, lo devi accettare e basta. Nel capitolo di Zago è diverso. L’unica volta che abbiamo una cosa del genere è quando la moglie s’incomincia a convincere pienamente del suo essere fedifrago, quando sono a letto, e c’è una dissolvenza che porta a lei e a Zago che in ospedale fa esercizi per il cuore. Attenzione, lì abbiamo lei che guarda la macchina da presa, ma in realtà sta guardando il marito, così come lui guarda la macchina, ma è come se stesse guardando la moglie. Infatti, quando subito dopo decide di fare il colpo con la canzone dei The Cure in sottofondo – tutto a bordo fotogramma – c’è lui che si volta a guardare la moglie sul divano, e lui che si volta a guardare ciò che ha fatto, cioè l’aver sparato. Perché ho fatto questa inquadratura? Perché c’è una doppia valenza, ossia: lui si rivolge verso di noi come a dire sì, lo posso fare; e sì, posso uscire da questa vita. Volevo un rapporto con lo spettatore che lo facesse entrare all’interno di quello che sta accadendo.


Una vox populi, nemmeno troppo sotterranea, ha lamentato che è difficile figurarsi De Luigi con la seriosità che il ruolo da te cucitogli gli richiede. Per lo spettatore è dunque complicato non guardare al De Luigi “formato commedia”; sul set, invece, per te e per lui come è stato lavorare a questo ruolo inusuale?

Quella era stata la mia grande scommessa. Non scrivo pensando agli attori, ma una volta completata la prima stesura, mi è capitata una cosa. Ero sul set di Metti la nonna in freezer, (qui la nostra intervista, n.d.R.) con Stasi e Fontana, che sono miei cari amici nonché soci in uno studio creativo, e mi accorsi che De Luigi stava seduto su una sedia pensoso. È una persona molto riservata, timida, riflessiva. Lì mi scattò qualcosa dentro: sono un fan delle idee folli. Idee, per intenderci, come se ne hanno in America, dove prendi Jim Carrey e gli fai fare The Majestic, Number 23, The Truman Show, oppure prendi Steve Carell da 40 anni vergine e gli fai fare Foxcatcher. Come regista non amo ripetermi o essere etichettato, quindi volevo una persona che avesse voglia di mettersi in gioco. Una persona che ha già fatto tanti ruoli drammatici si sarebbe divertita poco, invece Fabio ha raccolto la sfida, ci si è dedicato anima e corpo ed ha dato vita a questo personaggio in un modo inaspettato non solo per la sua carriera, ma in generale, perché gli ha dato umanità: Zago è un uomo normale, una persona media, non è un criminale. Fabio, che è una persona molto delicata e semplice, un professionista fuori dal comune, gli ha trasferito quella semplicità che lui ha: ed è bellissimo.

Proseguiamo questa riflessione sui personaggi. Il ruolo delle donne: sono decisive anche quando non si accorgono di esserlo. Ognuna di loro emana qualcosa di diverso nei confronti del proprio uomo. Come le hai differenziate?

Sì, sono tre tipologie di donne completamente diverse. Innanzitutto, rappresentano sempre una spinta, anche negativa, che porta ognuno dei protagonisti a fare una rapina. Sono molto caratterizzate nelle proprie differenze. Matilde Gioli (nel film, fiamma di Meroni\Morelli, n.d.R.) per me doveva rappresentare la semplicità e la purezza. Avevo difficoltà a trovare l’attrice giusta, perché mi serviva una femminilità che oggi è anche un po’ difficile da reperire, che facesse scontrare Luigi Meroni con la realtà: tu puoi anche desiderare tutto quello che vuoi, come andare in Costarica, ma le persone sono fatte di sogni più semplici, e lei desidera avere semplicemente un negozio tutto suo, senza dover sottostare ad un capo. La mia idea era che lui vedesse una ragazza così semplice, così pura, così buona nei suoi confronti, da fargli pensare che almeno una cosa buona la deve fare. Susy Laude (moglie di Zago\De Luigi, n.d.R.) tende invece al cliché della casalinga. Lui è un padre di famiglia classico, lei è la classica mamma, ma gelosissima. La cosa che mi faceva sorridere è che c’era un po’ già nella storia vera, ma noi ci abbiamo calcato la mano. Io ho conosciuto donne talmente gelose da diventare pazze, e lei è talmente gelosa (spoiler) da far sì che il marito muoia. Su Mariela Garriga (compagna del Lupo\Leo, n.d.R.) il lavoro è stato più complicato ma entusiasmante. Il capitolo tre si chiama il Lupo e volevo che alla fine del film la gente capisse che il lupo è lei. Lei è quella che ha in mano le sorti della baracca. All’inizio uno pensa che lei è una stronza arrivista, invece capisci che lei è una sopravvissuta, che veniva dall’estero: chissà quante ne ha dovute passare, si sarà dovuta fare il culo! Entrambe, in realtà, sono sopravvissuti, con caratteri particolari che entrano in conflitto. Ma si amano.

All’epoca del tuo primo film, I peggiori (2017), riconoscesti in un’intervista al Comicon di Napoli che film quali Smetto quando voglio e Lo chiamavano Jeeg Robot erano stati importanti per spianare la strada al tuo esordio cinematografico. Ora ti chiedo: cosa pensi che possa lasciare Gli uomini d’oro non solo allo spettatore ma anche ai tuoi colleghi registi? Come può segnare il cinema italiano contemporaneo? 

Spero che i miei colleghi facciano delle scelte non usuali. Spero di essere in questo senso d’ispirazione. Veniamo da un momento storico in cui c’è bisogno di essere matti. Questo ha dei rischi: fare un film come Gli Uomini d’oro è a rischio “buffonata”. Io spero che con un film come questo i miei colleghi si sentano più forti nel proporre le loro idee originali ai produttori. Ma i miei colleghi, in realtà, ce l’hanno questa voglia, ed è semmai più nei produttori e nei distributori che spero di portare ad un’apertura. E sì, penso che potrebbe portarla. Però… non so.

Regia: Vincenzo Alfieri
Cast: Fabio De Luigi, Giampaolo Morelli, Edoardo Leo, Giuseppe Ragone, Matilde Gioli, Susy Laude, Mariela Garriga, Gianmarco Tognazzi 
Genere: Noir 
Uscita: 7 novembre 2019 
Paese: Italia 
Durata: 110' 
Distribuzione: 01 Distribution


(nell'immagine in alto: fotogramma dal film Gli uomini d'oro con Fabio De Luigi a sinistra e Giampaolo Morelli a destra; all'interno: fotogramma con Edoardo Leo e Mariela Garriga. Fonte: 01Distribution. Si ringraziano Rosa Esposito e Valentina Palumbo)


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