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A chiamare in causa con le loro propalazioni accusatorie il vicebrigadiere Vincenzo Alcaro, tre collaboratori molto noti alla giustizia: Domenico Todaro, Bruno Procopio e Vincenzo Todaro. A conferire loro credibilità l’aver suggerito con precisione alcuni dettagli, rivelatesi spesso attendibili, di situazioni poco chiare nel soveratese che coinvolgevano pubblica amministrazione e cosche mafiose. [MORE]Cosa poteva far credere dunque che non dicessero il vero anche su un uomo della “Benemerita”? Nulla. Su questa presunzione si è dunque basato tutto l’impianto accusatorio nei confronti del vicebrigadiere. Arrestato a maggio, in carcere qualche mese ed ora scarcerato. In prima udienza il tribunale della libertà aveva respinto le richieste della difesa ritenendo che le dichiarazioni dei pentiti fossero verosimili e costituissero grave indizio di colpevolezza. Cosa spinge dunque il medesimo giudice Adalgisa Rinaldo, dopo pochi mesi, a rivedere la sua stessa decisione e a revocare l’ordinanza di misura cautelare in carcere con conseguente scarcerazione dell’Alcaro?
I fatti: secondo quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia il vicebrigadiere sarebbe un membro della cosca Sia-Tripodi del soveratese ed avrebbe in diverse circostanze supportato i Sia ed i Tripodi in varie attività criminose oltre ad averli agevolati rivelando notizie strettamente riservate sulle indagini in corso nei loro confronti.
L’eventuale processo stabilirà le responsabilità dell’Alcaro, non è questo che si vuol fare emergere, sia la nostra tesi accusatoria o innocentista. Ciò che preme sottolineare è l’estrema credibilità che ad ogni costo si vuole attribuire a chi ha commesso reati fino a ieri ed oggi, per convenienza, decide di collaborare. Ma chi ci dice che raccontino il vero? Stando alla sentenza della dottoressa Rinardo, le affermazioni dei pentiti, seppur in un primo momento potessero sembrare attendibili, alla luce di ulteriori indagini, sono state ritenute insussistenti e prive di valore indiziario. Questo perché a supportare la difesa del vicebrigadiere, si sono aggiunte alcune dichiarazioni di colleghi e superiori, persone informate sui fatti, che alla fine sono risultate determinanti per provare l’autenticità della tesi difensiva.
Pare, infatti, che i Todaro, avessero giurato vendetta nei confronti del vicebrigadiere, per antichi rancori relativi all’arresto di Vincenzo Todaro, per spaccio di sostanze stupefacenti, arresto eseguito dallo stesso Alcaro. Sentimenti di vendetta confermati da altri collaboratori di giustizia: Natale Cerbè e Ignazio Salè.
Le accuse mosse dai pentiti sono state smontate dalle testimonianze rese dai colleghi del vicebrigadiere e da superiori che tassello per tassello hanno spiegato la dinamica reale di alcune circostanze che l’accusa aveva utilizzato per supportare il processo. Relativamente alla foto scaricata dal web, fatto già spiegato in passato, la teoria del maggiore Dovico, secondo il quale, l’Alcaro avrebbe scaricato dal web la foto di Giuseppe Angotti per consegnarla ai Sia, viene smontata dalle affermazioni di alcuni colleghi, secondo le quali, lo stesso Alcaro aveva preparato una relazione da consegnare al maggiore, che in quella circostanza si era rifiutato di riceverla, additandolo. Sembra che l’Alcaro, avesse ricevuto da un suo confidente, la descrizione dell’esecutore materiale dell’omicidio di Vittorio Sia, descrizione che corrispondeva all’Angotti e che per provarne la colpevolezza avesse scaricato la foto.
Lo stesso vicebrigadiere, in più di un’occasione era stato tranquillizzato dai superiori e per la vicinanza alla dimora dei Sia, aveva dato in prestito la propria abitazione per spiare i movimenti della cosca, attraverso una telecamera, e trarre in arresto il latitante Vittorio Sia. Oltre a questo il vicebrigadiere si era rivelato, diverse volte nel corso degli anni, determinante per le indagini e la cattura di alcuni esponenti della ‘ndrangheta, proprio grazie alla sua vicinanza puramente territoriale con le cosche.
Quello che viene da domandarsi è: come mai all’interno della stessa Arma dei carabinieri, lo steso fatto è stato interpretato in maniera diametralmente opposta? Cosa ha spinto il Gip Antonio Rizzuti, ora sostituito da Giovanna Mastroianni, ad aggravare l’accusa nei confronti di Vincenzo Alcaro da associazione esterna di tipo mafioso, richiesta dal pubblico ministero, a parte integrante della cosca Sia? Sono probabilmente sufficienti le accuse di tre pentiti interpretate in vario modo dai giudici o forse si tratta di un pregiudizio nei confronti di un appartenente alle forze dell’ordine con un suocero in carcere accusato di associazione mafiosa dallo stesso Rizzuti?
Il quadro che emerge dalla sentenza, dalle stesse parole del giudice Rinardo, è a dir poco preoccupante: “La circostanza, ove si voglia riconoscere ai testimoni della difesa, appartenenti alle istituzioni, quantomeno la stessa credibilità attribuita ai pentiti, è allarmante”.
Si può dare più credito a dei pentiti che a degli stimati uomini dediti all’onestà ed a far rispettare la legge mettendo a rischio la propria vita ogni giorno? Ancora più grave si fa la situazione se, in base al racconto di un vecchio investigatore, si tiene in considerazione che per la Compagnia dei carabinieri di Soverato è una questione ciclica. Negli anni ’80, infatti furono tratti in arresto due militari della radiomobile e negli anni ’90 invece a subire l’onta delle manette fu l’allora Comandante della Stazione Vittorio Barletta, accusato da un collaboratore di far parte di una associazione mafiosa o di averla quantomeno favorita. Alla fine quel Comandante venne prosciolto. Certo è che, per quanto i collaboratori siano necessari alla giustizia e quanto mai fondamentali per la ricostruzione di alcuni fatti, se qualsivoglia collaboratore dovesse decidere un giorno di vendicarsi di chi l’ha arrestato o di chi ha indagato su parenti ed amici, tutti gli investigatori sarebbero nel mirino di un fucile virtuale caricato con proiettili chiamati galera.
Clara Varano
Innocente fino a prova contraria!