Giacino scrive una lettera al fratello:"Tutto il mio operato calpestato da un'inchiesta giudiziaria"
Cronaca Veneto

Giacino scrive una lettera al fratello:"Tutto il mio operato calpestato da un'inchiesta giudiziaria"

lunedì 17 marzo, 2014

VERONA, 17 MARZO 2014- Vito Giacino, ex vicesindaco di Verona ora in carcere con l’accusa di corruzione e concussione, scrive dalla sua cella di Montorio una lettera al fratello Edoardo, poi resa nota su tutti i quotidiani locali. Si definisce vittima di un sistema che non gli avrebbe finora permesso di costruire la sua difesa, accusandolo e vendendolo come un qualsiasi farabutto.

Dopo 23 giorni di silenzio” inizia l’ex braccio destro del sindaco Flavio Tosi “nei quali ho letto e sentito di tutto in merito alla vicenda che ha coinvolto me e mia moglie, ritengo opportuno fornire alcuni chiarimenti. Il mio impegno in politica inizia nel 1996 militando nei movimenti giovanili fino a entrare nelle istituzioni comunali solo grazie al consenso elettorale dei veronesi: nel 2002, nel 2007 e nel 2012, risultando il candidato, in assoluto, più votato di sempre con oltre 4.100 preferenze. Ho dedicato tutta la mia vita al lavoro, alla famiglia e alla cosa pubblica senza mai essere coinvolto, direttamente o indirettamente, in situazioni dubbie o discutibili: chi mi ha conosciuto sa che il mio tempo era dedicato ai problemi di ogni giorno dei cittadini, delle associazioni, delle imprese e del territorio. Purtroppo tutto il mio operato di oltre 12 anni è stato calpestato e gettato nel fango a seguito di un'inchiesta giudiziaria, in cui il mio diritto di difesa è stato compresso in ogni modo possibile: appena sono venuto a conoscenza del procedimento ho scelto di dimettermi da vicesindaco, onde permettere agli inquirenti di svolgere nel modo migliore le loro verifiche e, contemporaneamente, evitare ogni ombra sull'amministrazione comunale. Da quel momento sono stato dato in pasto alla stampa e ai media a seguito delle accuse più disparate, fino alla collusione con l'ndrangheta, con piste "rumene" e "russe". Dal 14 novembre, giorno delle dimissioni, ho preferito aspettare gli esiti dell'inchiesta vivendo, quasi, fossi un recluso, a casa mia evitando che mi si rimproverasse di interferire con le indagini. Fino al 17 febbraio mi sono concesso solo di andare in studio dal mio avvocato e di incontrare un paio di amici nelle festività natalizie oltre a scambiare qualche raro sms con gli amici di sempre, vicini in un momento difficile, primo fra tutti Flavio Tosi, che, proprio nella difficoltà, ha sempre voluto essere umanamente vicino a me e a mia moglie. Mai mi sono permesso in alcun modo di occuparmi di qualsiasi atto relativo al mio precedente incarico. Nonostante ciò il 17 febbraio sono stato arrestato e portato in carcere mentre mia moglie è stata sottoposta agli arresti domiciliari. Solo da quel momento sono venuto a conoscenza delle infamanti accuse di un imprenditore con cui avevo da anni un legame di amicizia e che, negli ultimi due anni, ha coltivato un sentimento di forte risentimento accusandomi, senza alcun riscontro, di averlo depredato. La mia parola contro la sua, la quale sembra tuttavia avere per gli inquirenti molta più credibilità. Tutti fatti inequivocabilmente dimostrabili. L'errore mio e di mia moglie in questa vicenda è stato di considerare questo imprenditore un amico e di non aver compreso che aveva chiesto a mia moglie assistenza professionale solo per le sue finalità. Altro errore è stato quello di aver accettato, in passato, pagamenti in contanti per prestazioni professionali svolte per alcuni clienti e spesi per l'acquisto di mobili e altre cose quotidiane: certo un errore, ma non un reato. Sono stato arrestato e chiuso in una cella, conoscendo solo in quell'istante le accuse di tale persona, nonostante fossero state ascoltate circa 60 persone, fra professionisti e imprenditori, che peraltro non hanno adombrato comportamenti illeciti a carico mio e di mia moglie. A tamburo battente il carcere, il divieto di comunicare con i miei familiari (a eccezione, dopo ripetute richieste del mio difensore, per mio fratello), l'accompagnamento col cellulare e la polizia a fianco in tribunale sotto le foto dei reporter: tutto ciò sulla scorta delle accuse di costui e del fatto che ci eravamo più volte incontrati; circostanze pacifiche e che avrei confermato, solo mi fosse stato chiesto. Sono trascorsi più di 20 giorni e la Procura ha tentato di confermare, nell'incidente probatorio, le accuse di questa persona sui fatti svoltisi in sette anni senza che potessi essere nelle condizioni di raccogliere tutti i documenti e le prove per sbugiardarlo, essendo in carcere con a disposizione solo la penna e la carta con cui sto scrivendo. Migliaia di pagine di atti (più di dieci faldoni) da leggere in pochi giorni e l'impossibilità di acquisire presso gli enti competenti la documentazione necessaria in tempo utile. A questo faccio riferimento quando parlo di compressione del diritto di difesa. L'incidente probatorio è stato l'unico momento in cui la difesa ha potuto porre domande a questo accusatore, già coinvolto nello scandalo Ater del 2004, ma certamente persona degna della massima credibilità secondo gli inquirenti. Distrutto il lavoro di una vita sia mio che di mia moglie, distrutte le rispettive famiglie, emessa una sentenza inappellabile davanti all'opinione pubblica, chiedo solo di poter essere messo nelle condizioni di difendere il mio onore e quello della mia famiglia, raccogliendo le tante prove che possono chiarire questa vicenda con a disposizione un computer e i miei documenti; comprova della verità storica. Dovrei forse stare in cella fino a quando inizierà il processo sicché quanto proclamato all'opinione pubblica si scontri con una difesa con le mani legate dietro la schiena? Non sembrano quasi «ingenue» le motivazioni addotte per tenermi in carcere e cioè la possibile reiterazione di reati a causa di alcuni messaggi con Tosi (nei quali non si faceva riferimento ad alcun atto amministrativo o provvedimento da adottare) o di possibile inquinamento perché a Natale sono stato a pranzo con un paio di amici? Quale possibilità di inquinamento a fronte dei sette interrogatori resi dal mio accusatore! Certo della forza della verità e del dovere di credere, sempre e comunque, alle istituzioni, ribadisco la mia totale estraneità ai fatti, sperando che non capiti mai più a nessuno. Intanto aspetto con fiducia e serenità il momento in cui si riterrà di darmi il diritto di difendermi, facendo notare a chi mi accusa, che, nonostante le continue fughe di notizie (la decisione del riesame di Venezia arrivata alla stampa prima che a i miei difensori) e le umiliazioni del carcere, della gogna mediatica, dell'esibizione al pubblico ludibrio è la prima volta che mi permetto di intervenire pubblicamente”.

Federica Sterza

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