Francesco Sicari: Il Profumo dei Tigli
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(Prologo) Lunedì 2 Gennaio 1984 salivo con la macchina lungo i tornanti che portano da Grotteria al passo di Croceferrata, nome abbastanza comune nei passi appenninici, per me molto importante perché ha segnato indelebilmente la mia vita. Mi inoltravo di fatto in un territorio per me sconosciuto
con un cartello che diceva: "fine provincia Reggio Calabria-inizio provincia Catanzaro”.
Il passo,1040 m s.l.m.,era un rettilineo di strada sul piano, con poche case ,con faggi secolari e poca neve sui margini. Che cosa facessi alle 7,00 di mattino in quelle zone e che cosa mi avesse spinto a farlo quasi non avevo cognizione. Ricordo solo un telegramma firmato "Bono" che mi invitava a prendere servizio presso l'ospedale di Soriano Calabro in qualità di assistente di Radiologia.
La temperatura era sicuramente sotto zero anche se la strada era libera ma scivolosa.
Dopo 10 minuti dallo scollinamento si presentò davanti un grosso paese (Fabrizia) che già fumava da tutti i suoi camini. I pochi cartelli segnaletici indicavano la direzione verso il grosso paese di Serra San Bruno.
Dopo pochi km, immerso in un bosco di abeti, passando in una galleria di alberi (piantagione 1958) giungo in un rettilineo lunghissimo. Sulla sinistra un cartello marrone turistico indicava "certosa di S.S.B..
Il sole non era ancora spuntato, temperatura -3 per mè che venivo dal mare, inconcepibile. Mi ero messo uno
spezzato con la cravatta per il primo giorno di lavoro per fare figura di persona seria e posata cosa che non mi è mai riuscita di fare a tutt'oggi. Sapete, a 30 anni e non sposato, la vita si presentava tutta da mangiare e da spolpare come grossa coscia in cui l’osso, si pensa, non arrivi mai. Pensavo alle conoscenze e agli incontri che avrei potuto fare, alle occasioni che la mia professione sicuramente offriva. Bivio Angitola km 38.
Un bar(dei cacciatori) e piglio il primo caffè corretto con sambuca. Chiedo informazioni ad un signore e mi
immetto sulla statale che porta all'ospedale di Soriano Calabro. Dopo pochi km il paesaggio cambiò.
Scendo rapidamente dai 1000 ai 500 metri di un altipiano dove sulla sinistra vedo, in lontananza la piana di Gioia Tauro e sulla destra il golfo di Lametia Terme. Incastrato in una fossa e circondato da ulivi secolari intravvedo un grosso agglomerato di case, in discesa, di cui la parte alta era situata a 500 metri di
altezza e la parte bassa a 250 ;in fondo alla parte bassa vedo una bella struttura, sicuramente un albergo circondato da alberi.
Passo attraverso i ruderi di un antico convento e chiedo ancora dove fosse l'ospedale:
"E' quello, non vi potete sbagliare" mi dice un giovane e mi indica quello che io pensavo fosse l'albergo, immerso negli alberi. L'accesso era libero, nella portineria non c'era nessuno.
Parcheggio la fiesta ed entro. C'erano poche persone che mi guardavano strano; chiedo della direzione
sanitaria ma mi dicono che non c'è nessuno.
Preso dal panico ed obnubilato nel sensorio cerco di concentrarmi per capire dove fossi capitato e per escludere di sognare(cosa che mi capita spesso). "Il telegramma", dico ad alta voce, quello sicuramente è una cosa reale. "Presa di servizio giorno 2-1-1984 come assistente di Radiologia". “Ma certo, la radiologia, ci sarà sicuramente qualcuno che mi aspetta! “ Entro nel reparto ben diviso con un lungo corridoio ed incontro un giovane allampanato che, osservandomi che avevo i guanti ,pensò fossi un t.d.c.
Fine 1a,parte
Dopo avermi presentato, il tecnico si convince che non sono quello a cui aveva
pensato e mi porta nella mia stanza dove un mucchio di radiografie stagnavano da
molto tempo.
Poi mi dice che la direzione sanitaria non esiste perché l'ospedale si è
aperto da poco e mi accompagna in un grande stanzone nel seminterrato dove
circa 50 dipendenti
erano intenti a ridere, a scherzare ed a sbevazzare caffè, non avendo niente da
fare o superiori a cui dare conto.
Sono stato uno dei fondatori di quel piccolo ospedale nel paese più piccolo
del mondo.
Mi ero dimenticato di dirvi(ma il racconto è breve)che in fondo allo stanzone,
appoggiata ad un tavolo, c'era una ragazza con un viso bello e sereno, con gli
occhi cangianti di un colore mai visto, ma questa è un'altra storia.
Alle 12,30 del 2 gennaio 1984,terminato il mio primo approccio con il lavoro,
chiesi dove potessi mangiare perché di tornare a casa non se ne parlava nemmeno,
tanto era stato lungo il viaggio di andata.
Mi risposero che in questo paese non c'erano nè c'erano mai stati alberghi e
ristoranti per cui bisognava arrangiarsi presso una piccola trattoria gestita
da una coppia di ottantenni che quel giorno mi cucinarono tagliatelle col sugo
di agnello e come secondo la stessa carne di agnello al sugo.
In quella trattoria non mangiai mai più.
Al ritorno in ospedale cercai di risolvere il problema dove passare la notte;
il tecnico Pasquale C. mi rassicurò che no c'erano problemi perchè di sicuro
avremmo sistemato una brandina nel nostro reparto, tanto erano le stanze vuote,
ma non fù cosi facile.
Brande in tutto l'ospedale non c'erano!
Sistemano, alle ore 19,00 cinque materassi di gommapiuma uno sull'altro,
lenzuola di un tessuto spesso non ben definibile e una coperta dei terremotati
con scritto in rosso "Crocerossa" e mi apprestai a passare la notte senza
cena.
Mi chiusi dentro il reparto, per fortuna ben riscaldato, ed essendo ancora
presto per coricarmi andai in esplorazione
in tutte le stanze.
In un cassetto di una vecchia scrivania trovai un fumetto di Diabolik e uno di
Zagor, mi avrebbero fatto compagnia per la notte.
Alle 20,15,all'improvviso,squillò il telefono della mia stanza, interno 240.
"Pronto sono Vincenzo C.,il portiere del turno di notte, abbiamo organizzato
tutti i turnisti una piccola mangiata, se volete venire ci farà piacere".
"Arrivo subito, risposi", e la prima giornata di lavoro inizio davvero.
Al primo piano, dove sarebbe dovuto sorgere il reparto di pediatria, fù
imbandita con 2 assi e 2 cavalletti la tavolata.
Olive salate, olive rotte, soppressate, formaggio pecorino, finocchi, pane di grano
con la crosta dura.
Frattanto nel cucinino 2 kg di spaghetti fumanti all'aglio ed olio con
peperoncino da rimetterci stomaco, intestino tenue e colon, stavano per essere
messi nei piatti.
Mi sistemarono, come ospite d'onore, vicino ad una ragazza di una bellezza
indescrivibile, sicuramente dotata di un fascino letale.
Aveva orecchini e capelli da zingara, labbra pronunciate ed occhi grandi che
scagliavano scintille in tutte le direzioni tanto chè, forse confuso anche da un
buon mezzolitro di vino, pensai che il suo sguardo avesse colpito dritto al
cuore.
La ragazza, che si chiamava Rita, era la centralinista e i suoi capelli neri e
lunghi mi sfioravano ogni tanto facendo incontrare i nostri occhi.
Di quella notte ricordo il profumo del suo respiro, la grandezza e la
profondità dei suoi silenzi quasi malinconici.
Alle 24,00 andammo tutti a dormire!
Io non riusci a chiudere occhio se non all'alba!
Tutta la notte vedevo nel muro, come dei Flash, il viso di Rita, aiutato anche da
quel mezzolitro di Cirò.
Primavera anno 2001(dopo 17 anni)
Le tenevo le mani strette e la guardavo negli occhi come fosse la prima
volta.
"Erano dolci i tuoi occhi, amore mio, quando ti baciavo!
Quante volte, con la mano nella mano abbiamo percorso il viale dei tigli!"
Adesso giaci lì immobile, le tue ossa consumate dal male che ti ha, piano piano,
distrutto, e non basta e non serve a niente il mio amore!
I tuoi occhi lentamente svaniscono e le tue pupille diventano vuote!
"Quante scintille i tuoi occhi, Rita, una volta!"
Adesso le nostre mani sono solo un abbraccio freddo e i miei occhi non hanno
più lacrime.
Mi tolgo la collana di acciaio che mi avevi regalato al nostro primo
anniversario e dolcemente la cingo al tuo collo perché possa rimanere in
eterno.
Ti accarezzo i capelli neri, da zingara.
Queste cose dovevano succedere tanti anni dopo.
Frattanto io mi preparavo a godere di tutti i piaceri che il mio destino mi
portava davanti, non sapendo che all'angolo sono in agguato la tristezza e
l'infelicità e la solitudine.
L'ospedale piano piano, con l'arrivo dei medici, decollò ed il lavoro aumentò.
Essendo l'unico radiologo ero praticamente sempre in servizio.
Mi ero affittato una casa comoda con giardino per cui mi dilettai dal primo
momento a piantare di tutto compreso un albero di ciliegio che dopo 4 anni
diede i primi frutti.
Mentre l'inverno del 1984 lasciava il passo alla primavera più bella della mia
vita riuscì ad ottenere un incontro con Rita che abitava in un paesino vicino.
Ci dovevamo vedere alle 16,00 di sabato 27 marzo a Vibo Valentia dove, lontano
da occhi indiscreti, potevo dichiarare il mio amore che mi sembrava il più
grande del mondo, ma non fù così perché a Vibo incontrammo per le strade almeno
50 dipendenti dell'ospedale per cui, timidi entrambi, pigliammo un caffè in un
bar del centro e pigliammo anche tanto freddo in conseguenza del quale il
giorno dopo ebbi la febbre a 40°.
Ma dato che non tutti i mali vengono per nuocere, quella fù la febbre più
fortunata della mia vita perchè venne a trovarmi a casa Rita e qui la storia
precipitò.
Quando il campanello di casa squillò, aprii la porta e vidi Rita ed il mercurio
del termometro salì in alto ed esplose.
I suoi occhi lanciavano scintille incandescenti verso i miei e credetti di
essere in paradiso perché vidi San Pietro con un grande mazzo di chiavi che mi
faceva segno con le labbra di baciarla.
Febbre o non febbre il bacio ci fù ma preso dalla foga gli baciai il naso, gli
occhi e forse anche le labbra.
Da quell'incontro compresi di essermi innamorato ammesso che l'amore si possa
capire o ridurre a concetti semplici.
Nella vita ci si può innamorare una volta sola e per sempre o tante volte,
dipende dal destino.
In tutti i casi l'amore è bello tutto, a qualsiasi età perchè l'amore è il
motore della vita senza il quale tutto diventa vivere ma non vita.
Qualcuno ha detto che l'amore più bello è l'ultimo, quello
che ci accompagnerà alla morte ma tutto è da verificare.
Io avevo conosciuto l'amore a 40° e durante la notte vidi solo Rita e
nient'altro che Rita.
La primavera avanzava e fece fiorire il viale dei tigli ed un profumo
dolcissimo giungeva sino in ospedale.
L'estate del 1984 ci vide protagonisti principali del nostro amore che crebbe
giorno dopo giorno fino a diventare immenso.
-Vivevamo insieme, ricordi, Rita, nella nostra piccola casa, e tu mi cucinavi il
riso con il sugo dei pomodori, che a me piaceva tanto, e tu mi abbracciavi quando
io arrivavo e le nostre labbra sembravano raccogliere nuova energia dai nostri
baci!
Cissà ora se senti le mie parole che accarezzano il tuo viso.
"Quante parole sono uscite dalle mie labbra!"
"Quante lacrime dai miei occhi!"
Non ho mai avuto la forza di venirti a trovare dove adesso sei.
Non avrei più lacrime da darti o carezze per sfiorarti!
Forse potrei raccontarti di questi 6 anni trascorsi senza di te anche se tu
cammini sempre vicino a me, troppa gelosa per lasciarmi solo anche un attimo.
Sono sempre lo stesso, anche se qualche piega sul viso è comparsa ed un solco
di malinconia traspare nelle mie parole.
-Ti amo ancora! Amo i tuoi occhi da zingara, scintillanti! Amo i tuoi silenzi
malinconici!
Amo quando mi guardi!
Presto verrò a trovarti quando le mie aiule daranno rose più rosse e quando
avrò il coraggio di capire che sei morta.
Il 20 settembre 2006 salivo gli stessi tornanti che portavano al passo di
Croceferrata.
Le foglie dei faggi stavano diventando dorate e contrastavano con il mazzo di
rose rosse posate sul sedile posteriore della golf.
Dopo 22 anni la strada era sempre la stessa e quà e là lungo i bordi della
strada cercatori di funghi spuntavano con in mano grossi porcini.
Tanti ricordi minuziosi e precisi fecero volare la strada ed il tempo tanto
che mi trovai all'imbocco del viale che portava al cimitero di Soriano.
L'aria era tiepida alle 6,00del pomeriggio.
Cercai Rita in fondo alla parte nuova del cimitero, non ci ero mai stato!
Riconobbi la foto dei suoi 25 anni.
Ero solo in quel pomeriggio terso di settembre.
Pulì la sua lapide e sistemai le rose e le parlai a lungo di mè, della mia
solitudine e della mia tristezza.
Lei mi ascoltò calma, come sempre e poi mi disse parole d'amore e io
l'abbracciai nel pomeriggio terso di settembre.
Poi mi disse che doveva andare perché era tardi e mi diede l'ultimo bacio.
Le sue labbra erano fredde e i suoi occhi erano spenti e vidi un velo di
stanchezza nel suo corpo.
Solo allora capi che era morta e che non poteva più vivere che solo nella mia
memoria per sempre.
Si era levato un vento leggero da ovest quando oramai dentro di me avvertii
quasi una sensazione nuova, come se la brezza di inizio autunno fosse un vento
caldo di primavera che lambisce la mia casa sul mare ionio.
Con le spalle al cimitero scendo per guardare per l'ultima volta il viale dei
tigli oramai privo di fiori e di profumi.
L'ospedale è sempre lì, sempre più grande, quasi mi lascia indifferente come se
non mi appartenesse più, quasi se la mia vita migliore trascorsa fosse stata
vissuta altrove.
Mi fermo un attimo per illudermi ancora che lei sia con mè, poi salgo sulla
golf ed affronto i tornanti del ritorno a casa di mio padre sul mare ionio.
Un petalo di rosa rossa smarrito al vento di settembre mi sfiora la faccia e
sento per l'ultima volta l'odore di Rita ed il sapore delle sue labbra.
Oramai la mia vita come sarebbe stata senza l'amore del ricordo?
Oppure avrei percorso piano, piano la strada della mia fine senza più amore,
senza le scintille dei suoi occhi ormai spenti?
All'improvviso la voce di Rita mi dice di tornare indietro perché ha
dimenticato di darmi qualcosa.
Mi precipito di nuovo verso il cimitero e giungo alla sua tomba;
Attaccata alla sua foto vedo la la mia collana di acciaio che gli avevo cinto
prima di morire,6 anni prima.
Era fredda e luccicava, colpita dal sole che stava per tramontare ad ovest.
Che cosa avesse voluto dirmi lo capi tanti anni dopo.
Quella collana la porto ormai sempre con me e quando mi guardo allo specchio
vedo nascere scintille dal metallo; sono gli occhi di Rita che mi dicono di non
mollare, di affrontare un altro giorno.
-Mia figlia-1985
Non avevamo voluto sposarci,era troppo bello il nostro amore e i giorni
passavano con la voglia di viverne altri sempre più intensi e felici.
Ci eravamo sposati mille volte sulle albe dello ionio e sui tramonti rossi del
tirreno;
Ci eravamo detti "si" negli autunni piovosi delle Serre Calabre o quando i
nostri occhi scrivevano "ti amo" con i bagliori del nostro affetto.
L'anno 1984 passò e diede il frutto più grande!
Rita aspettava un figlio.
Andammo in chiesa il 25 febbraio 1985 e ci sposammo.
Ricordo Rita con un vestito bianco, corto al ginocchio, scollato, le scarpe
bianche, il fiocco in testa ed i suoi capelli neri.
Il viaggio di nozze lo fecimo nella nostra piccola casetta, a 200 metri
dall'ospedale.
Rita partorì il 29 luglio 1985 in una giornata di caldo africano;
Io piansi di gioia!
Nostra figlia si chiamò Cristina ed i giorni passarono
Il profumo dei tigli
Epilogo
I giorni, le stagioni e gli anni passarono e la realtà della vita prese il
sopravvento sulla nostra felicità.
Rita dovette dividere il suo amore per Cristina e per me anche se il suo
affetto non venne mai meno.
Cercava di essere madre e moglie con la stessa intensità ma il tempo e il
destino la colpirono senza pietà.
Un giorno la vidi stanca come mai e la vidi tenersi il petto con le mani.
Aveva 32 anni ed il cancro del polmone la stava colpendo oscurando piano, piano
la sua voglia di vivere e il suo destino.
Ogni tanto sorrideva, per farmi felice, ma si vedeva che era sola con il suo
dolore perché l'uomo quando sente la fine della sua vita si racchiude in se
stesso per trovare la forza di morire.
E non serve più l'amore e non serve più il mio affetto.
Forse sarebbe meglio farla finita e non lasciare che sia il caso a farlo.
Tanti anni durò la sua agonia.
Il male gli erose le ossa, gli distrusse i polmoni, lasciandogli, inesorabile, il
cervello indenne quasi per farla partecipe del suo dolore come la aveva fatta
partecipe della sua gioia.
La vita si ripiglia tutto indietro ed io non ebbii lacrime, che mi rimasero
dentro e non poterono mai esplodere.
Ricordo le sue mani fredde che non presero mai il calore delle mie e le sue
pupille che si dilatarono.
Un vento tiepido giunge da sud-est, nella casa di mia madre, affacciata sul mare
ionio; ogni tanto vado a trovare mio fratello che vive lì e mi affaccio dal terrazzo
per sentire l'odore e il sapore della salsedine per ricordarmi la mia infanzia.
Mia madre e mio padre sono morti uno dietro l'altra, dopo Rita e tra poco andrò
al cimitero per vedere i loro volti e ricordarmi che ci sono stati.
Rita riposa un poco più lontano, verso nord.
Entrambi i cimiteri sono quasi simili, immersi nella campagna e pieni di
cipressi ed ulivi.
Mio padre e mia madre sono contenti di vedermi e mi parlano per confortarmi
della mia tristezza e solitudine.
Mi dicono che rita sta bene, che è sempre la stessa e che mi vuole sempre
bene.
Non riesco a restare che pochi minuti perché la mente, un poco assopita, si
mette a ricordare mille cose.
Riuscissi almeno a piangere!
Mia figlia Cristina è lontana e non è riuscita che per poco a colmare il vuoto
di mia moglie.
Di mia moglie ha preso la faccia ed i capelli da zingara ed i suoi silenzi.
Domani Andrò al cimitero di Soriano per trovare Rita.
Francesco Sicari