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ROMA, 4 LUGLIO 2013 - La disoccupazione a maggio è salita al 12%. Secondo l'Istat si tratta del picco più alto dalle serie mensili e dalle trimestrali avviate trentasei anni fa. Il governo Letta ha varato un decreto che prevede incentivi per chi assume a tempo indeterminato i giovani, agevolazioni per i soggetti con più di cinquant'anni di età, disoccupati da oltre dodici mesi e disabili. Per questi provvedimenti sono stati stanziati 1, 5 miliardi di euro.[MORE]
Era grande l’attesa per l’approvazione del decreto firmato dal ministro Giovannini. Il Consiglio dei ministri finalmente ha varato il pacchetto da 1,5 miliardi di euro che dovrebbe rilanciare l’occupazione giovanile, in particolare per il Sud Italia. Enrico Letta ha dichiarato di essere entusiasta di questo provvedimento, essenziale per la crescita e lo sviluppo del Paese. Il premier sta cercando di mandare un messaggio all’Ue su temi molto importanti in questo periodo di crisi, ovvero il sociale e l’occupazione. Verrà recepito dall’Europa?
L’intero problema della disoccupazione deve essere recepito dall’Europa. In realtà solo con politiche comunitarie è pensabile uscire dall’ormai pluriennale crisi che ci attanaglia. Solo superando i nazionalismi e mettendo in campo forze sovranazionali si può ottenere un risultato che permetta di rilanciare l’Europa. La disoccupazione colpisce l’Italia come la Germania, la Spagna come l’Olanda, ogni Paese con percentuali diverse, ma colpisce ovunque. Il Parlamento europeo, come auspicato da più parti, deve finalmente compiere un balzo in avanti, i singoli Stati devono invece fare un passo indietro e lasciarsi guidare fuori da questo pantano che da finanziario è divenuto sociale. Non è possibile chiedere alla BCE o a Bruxelles di farsi carico dei nostri problemi senza una contropartita che altro non può essere se non la consegna di certi poteri e prerogative accompagnati da conti pubblici in ordine. La soluzione della disoccupazione passa necessariamente attraverso una seria e più equa politica fiscale, una concreta lotta all’evasione fiscale (da anni trascurata) e al lavoro nero.
Il governo ha predisposto un ddl per chi non ha un lavoro stabile. Questo è senz’altro una notizia da valutare positivamente. Ne beneficeranno in particolare gli under 30 e gli over 50. Il problema non sta nell’incentivare l’assunzione per gli under/over di qualunque età ma piuttosto rivedere i tipi di contratti focalizzandosi sul problema del precariato?
In Italia siamo tutti furbi, tutti bravissimi a trovare soluzioni rapide per aggirare ostacoli legali , per piegare a nostro vantaggio personale la legge e le regole. Il diritto al lavoro e i contratti di lavoro, in questi due decenni, sono stati massacrati da una serie di leggi sciagurate che anziché combattere la disoccupazione l’hanno incentivata così come il precariato, vera faccia italiana della “flessibilità” in stile americano. I vari co.co.co, co.co. pro, lavoro interinale e a cooperativa hanno minato e distrutto definitivamente e minano e distruggono tuttora, nelle forme contrattuali ancora esistenti e/o modificate, ciò che resta della meritocrazia in questo Paese. Solo i raccomandati hanno tratto vantaggio da tutto questo marasma di tipologie contrattuali, mentre tante persone non sono mai riuscite ad inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro, il tutto con la benedizione dei sindacati che hanno così venduto i propri iscritti al miglior offerente. Incentivare le assunzioni è una soluzione parziale del problema occupazionale che va in realtà affrontato con una revisione dei sistemi di assunzione e di tutte le forme contrattuali relative.
Senza alcun dubbio i giovani sono una delle risorse più preziose per lo Stato, ma non sempre è facile esprimere cosa sia davvero necessario per risolvere i problemi delle nuove generazioni. “Quelli di mezzo”, cioè coloro che hanno un’età compresa tra i 30 e 49 anni, rischiano di finire nel dimenticatoio. Questi potrebbero infatti vedersi preferire ai più giovani e così concretizzare l’ipotesi che si inneschi una competitività al ribasso anche sulle retribuzioni. La proposta di Letta sembra valida solo in parte.
Farebbe sorridere, se in realtà non facesse piangere la costante e doverosa attenzione dedicata al contrasto della disoccupazione giovanile che monopolizza le energie dell’attuale classe politica a scapito di un’intera generazione che da anni ha smesso di contare in ambito occupazionale, ma che rimane al centro di tutta la politica fiscale. Sono quelli che stanno fra i 30 e i 50 anni. Tante di queste persone non riescono ad oggi a mettere su famiglia, ad avere un prestito in banca, a smettere di vivere con i genitori perché alla loro età ancora non possono contare su un lavoro stabile. I concorsi sono pochi e spesso pilotati, per l’apprendistato sono troppo vecchi, la riforma universitaria ha reso la laurea alla portata di tutti vanificando gli sforzi di chi a suo tempo conseguito una laurea con il vecchio ordinamento (molto più selettivo e valido di adesso) e il mercato del lavoro è alla ricerca costante della fonte dell’eterna giovinezza. Eppure si tratta della classe che dovrebbe fornire il grosso della forza lavoro, i cittadini che comprano e spendono. Ma così non è e non ci si accorge che presto verrà a mancare una generazione di bambini: quelli di coloro che un figlio proprio non possono permetterselo.
I disoccupati over 35 sono in continua crescita. Un vero e proprio drammatico fenomeno sociale. Sono lavoratori non desiderati e in ricerca di un’occupazione. Troppo giovani per andare in pensione e allo stesso tempo troppo in là con gli anni per avere una retribuzione fissa. Il governo attuale ha affermato che le cose cambieranno. «Siamo all’inizio della ricostruzione», è stato detto. Da quale base potremmo ripartire per far sì che l’Italia migliori?
La soluzione sta solo ed esclusivamente nella trasparenza, parola sconosciuta in questo Paese. Abbiamo un tale terrore della trasparenza da rinunciare spesso al sostegno e ai denari europei, vincolati a controlli e resoconti, pur di potere continuare i nostri trafficucci. Trasparenza significa meno lavoro nero, concorsi pubblici regolari, amministrazioni locali con qualche consulente raccomandato e strapagato in meno ma con servizi sociali funzionanti, una tassazione più mirata, più personalizzata. Restituendo dignità ai lavoratori si inietta speranza, quella speranza che permette di credere che alla fine tutto andrà bene, ma per credere ciò bisogna avere la prova tangibile che la ricostruzione del tessuto sociale e di una rinnovata etica sociale è in atto. Bisogna contrastare i privilegi e le baronie, le lobby e gli interessi di parte per dare spazio alla cittadinanza, alla comunità che vede, giudica e interviene. La rete sociale, insieme a quella familiare possono ancora essere la forza di questa nazione. Queste due reti possono offrire occupazione e integrazione, ricchezza e sostegno ma è l’ora di smettere di minarne costantemente le fondamenta.
In Italia il merito, il talento e l’ingegno sono triturati dalla burocrazia e dalla raccomandazione. Oggi più che mai, per avere una risonanza magnetica al ginocchio è necessario giocare a tennis col primario. Sono in molti a lasciare l'Italia alla ricerca di un futuro professionale migliore. Non sempre questo risulta essere la soluzione migliore. Se tutti se ne vanno, chi si occuperà del nostro Paese? Coloro che se ne vanno è perché non hanno scelta, che ci hanno provato e non c’è stato altro da fare. Credo tuttavia che lasciare un Stato bello come il nostro, lo si può fare solo se si è costretti. Chiunque ha il diritto di conoscere questa terra, di amarla. Solo così l’Italia potrà davvero essere ricostruita. Non credi?
Sicuramente la scelta di andare a cercare lavoro all’estero è sofferta e ponderata perché non priva di rischi: anche negli altri Paesi la situazione non è rosea e lasciare la terra di origine per un’altra, magari anche lontana, non è cosa che si fa a cuor leggero. Ma allora perché farlo? Perché l’Italia a molte persone non solo non ha dato un lavoro, ma ha tolto i sogni e la prospettiva. La Patria non è solo un territorio, non sono solo la gente ei i cari che su quel suolo vivono, la Patria è un concetto legato a dei principi fondanti che mirano alla costruzione e allo sviluppo di un bene comune, che poi è una società sana, una comunità basata sul rispetto di noi stessi e dell’altro da noi. È triste dirlo, ma ormai da troppi anni in Italia non è più così: decenni di banditismo politico, di corruzione, clientelismo, sfruttamento bieco delle risorse comuni, dei beni culturali, delle risorse umane, e poi ancora la spasmodica ricerca del privilegio, del successo facile, della spintarella, tutto questo mentre intere fasce della popolazione annaspavano faticosamente, combattendo contro tutto quanto scritto sopra. Ad un certo punto la voglia di battersi finisce, si esaurisce, si profila la possibilità di andare a guadagnarsi da vivere meritatamente altrove e la si coglie, quando possibile. E chi resta continua ad affogare, ad affondare. Si fa un gran parlare di fuga di cervelli, ma non si parla mai della sparizione della prospettiva, della ricerca della felicità. Il cervello che non cerca più la felicità, la realizzazione e dunque la prospettiva è già scappato in posto ben più lontano che all’estero.
Giulia Farneti e Alessandro Bertolucci