Così è (se gli pare). Brasile e Turchia: due Stati e (quasi) la stessa protesta
Entra nel nostro Canale Telegram!
Ricevi tutte le notizie in tempo reale direttamente sul tuo smartphone!
ROMA, 27 GIUGNO 2013 – Spendere meno per il calcio, più per scuole e sanità. Il Brasile scende in piazza. La protesta, in Turchia, cambia volto. Cucirsi la bocca per far sentire la propria voce. Due Paesi così diversi eppure così simili.[MORE]
Ancora scontri in Turchia. Le forze antisommossa hanno iniziato ad usare i cannoni ad acqua contro i manifestanti riuniti a piazza Taksim a Istanbul ad una settimana dall’assalto della polizia ai giovani che occupavano Gezi Park. Anche in Brasile si stanno vivendo scontri e violenze. Entrambi gli Stati, secondo il premier turco, sono vittime di uno stesso complotto straniero teso a destabilizzare i loro governi attraverso presunti movimenti antigovernativi. Cosa porterà tutta questa violenza? Ad un tragico epilogo?
Il Brasile e la Turchia sono due Paesi diversi sotto molti punti di vista, la loro storia, la collocazione geografica, la condizione finanziaria sono diverse, ma esistono tuttavia dei punti di contatto. La violenza non è un comune destino o una stagione da condividere, la violenza è molte volte il risultato che creano le orecchie sorde di chi dovrebbe ascoltare il proprio popolo. La violenza dello Stato è non giustificata, quella del popolo è deprecabile ma a volte è l’unica strada percorribile rimasta.
«Coloro che hanno fallito in Turchia, stanno facendo del loro meglio in Brasile. Lo stesso gioco, i simboli sono gli stessi, i manifestanti sono gli stessi, twitter e facebook sono gli stessi, così come i media», così ha dichiarato Erdogan parlando ai migliaia di sostenitori nella città di Samsun. Cosa accomuna i due Stati?
L’arroganza e gli interessi di parte accomunano i due Paesi, e non solo questi due. Turchia e Brasile presentano situazione finanziarie che molto meno degli altri Paesi hanno risentito della crisi. Il Brasile guida ormai da anni l’economia sudamericana, la Turchia è la nazione ponte fra l’Europa e i Paesi di cultura musulmana, un ruolo determinante nel panorama geopolitico attuale. Ma il comune denominatore è l’interesse per il profitto di una classe di persone. In Brasile, aldilà della polemica attuale, da anni si sta facendo strada una classe dirigente ricca, molto ricca che persegue i propri interessi politici e finanziari in barba alle esigenze del popolo brasiliano. Intere città extra-lusso sono state costruite, cattedrali nel deserto per accogliere i nuovi abbienti, mentre le persone normali lamentano la mancanza di ospedali e un costo della vita sempre in crescita. Il Brasile ha due marce, come spesso accade: una marcia con il turbo per pochi e una per molti inadatta alle salite della vita.
Ormai in Brasile quotidianamente ci sono violenze nelle città dove si gioca la Confederations Cup. Manifestazioni pacifiche contro carovita e corruzione si sono svolte in tutto il Paese, degenerate in scontri fuori dagli stadi. Le proteste contro gli sprechi e l’insufficienza dei servizi pubblici si sono diffuse in oltre venti città. Le spese legate ai mondiali di calcio sono solo il pretesto per dar voce ad un popolo che sta vivendo una situazione diventata oramai insostenibile?
Il calcio è sinonimo di soldi e di potere quasi ovunque. I presidenti delle squadre sono i paperoni di ogni nazione, Italia inclusa, e sono persone che muovono miliardi di euro. Il Brasile negli ultimi anni ha puntato molto sulla sua immagine sportiva e vincente, organizzando eventi sportivi uno dietro l’altro, tanto che adesso già aspettiamo il mondiale di calcio 2014 che si terrà per l’appunto in Brasile. Grandi costruzioni, stadi e infrastrutture che rischiano, una volta passato l’evento, di essere inutilizzabili per altri scopi. Queste opere costano cifre iperboliche che spesso neanche rientrano con i proventi della manifestazione e il circo annesso. In un periodo di vacche magre ( e in Brasile ci sono sempre state e ci sono tuttora) la popolazione si interroga sul perché queste cifre non vengano destinate altrove, con scopi socialmente più utili. Da qui le proteste che forse non faranno bene all’immagine calcistica carioca, ma scuote gli animi e mette il dito nella piaga della corruzione, dell’interesse di pochi contro il bisogno di tanti.
La presidente brasiliana Roussef dopo due settimane di proteste è intervenuta con un discorso alla nazione invitando a mantenere la calma e a dialogare con tutti, ma fermando i violenti. Sulla corruzione ha detto: «Vincerà la trasparenza». Ha poi rivolto un appello ai partiti politici affermando come la sua generazione abbia dovuto lottare per conquistare la democrazia. «Le proteste sono il segno di vitalità del nostro Paese», ha affermato. Questa è stata la reazione della presidente che ha un passato da combattente.
Quello che stupisce è proprio la reazione della presidente brasiliana Roussef, una donna che ha provato la prigionia, che ha combattuto, come lei stessa ha sottolineato e che poi scatena la polizia in questo modo: a mio avviso stride. La corruzione brasiliana è vecchia e famosa quasi quanto quella nostrana, e combattere un sistema così radicato nella cultura della gente non è facile, come difficile è non ascoltare il magnate della tv che ti siede accanto in parlamento o il palazzinaro che ti sostiene alle elezioni. La Roussef non ha un compito facile, ma è il suo compito e dovrebbe adempierlo: c’è una moltitudine di cittadini che urla il proprio disagio, vanno ascoltati ed aiutati.
Le proteste corrono lungo i confini dei Paesi emergenti. I brasiliani chiedono trasporti migliori, ospedali efficienti, scuole migliori e assenza di corruzione. Vorrebbero il miglioramento delle infrastrutture socio-economiche e della gestione della cosa pubblica. I turchi manifestano contro Erdogan, cioè contro un primo ministro che si vuole imporre con comportamenti alquanto superati, come il controllo dell’uso dell’acol. Nemmeno i tunisini si preoccupano di avere un’occupazione e opportunità individuali. Richieste di una moderna contestazione?
Non mi stupisco di questo ribollire in giro per il mondo, sono a favore delle proteste dal basso, in alcuni casi anche violente, perché quando chi dovrebbe ascoltarti non ti ascolta o finge di ascoltarti ma poi non agisce, allora forse c’è bisogno di una scossa energica, di una rivoluzione. Rimango basito dall’immobilismo e dalla passività di noi italiani che con una buona dose di paternalismo guardiamo “i Paesi emergenti” combattere e contorcersi in lotte intestine. Ma quelli protestano proprio perché emergendo sentono di avere diritti e risorse che prima non avevano e vogliono essere liberi di autodeterminarsi. Noi stiamo affondando, abbiamo perso negli ultimi anni molti diritti, fra cui quello al lavoro, siamo fra i Paesi più corrotti al mondo, abbiamo l’informazione meno libera che in altra nazioni e ce ne stiamo, come sempre, ad aspettare la manna dal cielo. Che non verrà…ecco, ora piove…speriamo non ci colga un fulmine.
Giulia Farneti e Alessandro Bertolucci