#Celochiedeleuropa. Evasione fiscale transnazionale: L'Ue adotta il sistema "Facta"
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BRUXELLES (BELGIO), 4 GIUGNO 2013 – L'Europa corre ai ripari. La scoperta dello “schema-Apple”, che ha permesso alla società di Cupertino di evadere 74 miliardi di dollari, ha reso evidente l'incapacità delle normative nazionali di poter contrastare da sole un fenomeno, quello dell'evasione fiscale transnazionale, che fa perdere all'Unione circa 1.000 miliardi di euro all'anno.[MORE]
Da un lato l'Irlanda, secondo la quale le società con sede nel paese ma controllate direttamente dall'estero non sono tenute al pagamento delle tasse; dall'altra gli Stati Uniti, che giudicano il reddito generato all'estero esente da tassazione. È attraverso questa “indecisione fiscale” che la Apple è riuscita negli ultimi tre anni a pagare solo il 2 per cento di tasse su un reddito generato all'estero pari a 74 miliardi di dollari. Allo stesso modo grandi multinazionali come Google, Starbucks o Amazon sfruttano le filiali in Lussemburgo o in Olanda per pagare meno imposte alle casse della Gran Bretagna. Durante l'interrogatorio al chief executive della società di Cupertino, Tim Cook, il senatore democratico Carl Levin – presidente della Commissione che sta indagando sul caso – ha lanciato l'allarme: negli ultimi tre anni trenta tra le maggiori corporations americane sono riuscite a non pagare tasse su profitti di oltre 160 miliardi di dollari.
Secondo lo studio realizzato per l'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) del Parlamento Europeo da Richard Murphy, direttore di “Tax Research LLP” (organizzazione che fa parte del Tax Justice Network, coalizione di ricercatori ed attivisti che si battono per la riforma in senso democratico e progressivo dei regimi di tassazione a livello nazionale e globale), sulla base dei dati relativi al Prodotto Interno Lordo del 2009 al Fisco europeo mancano più di 1.000 miliardi di euro tra evasione (860 miliardi) ed elusione fiscale (150 miliardi). A subire maggiormente i danni di questa sottrazione è l'Italia, dove quasi un terzo del denaro destinato al pagamento delle imposte (il 27%, pari a 180 miliardi) prende la strada dei paradisi fiscali.
«Mille miliardi corrispondono al Pil della Spagna, la quinta economia europea, all'intero bilancio settennale dell'Ue, e sono 100 volte il piano di aiuti per Cipro», ha detto il presidente del Consiglio Europeo Herman van Rompuy durante la riunione informale dell'Ecofin di aprile. Numeri che hanno portato, durante il vertice dei capi di Stato e di governo dello scorso 22 maggio, alla decisione di rimettere mano alla direttiva risparmio. Attraverso il commissario al mercato interno, il francese Michel Barnier, la Commissione Europea ha infatti reso nota la decisione di rendere più stringente la propria disciplina fiscale, basandola su quello stesso ”obbligo di trasparenza” che dal prossimo anno costringerà le banche europee – in base alla normativa sui requisiti di capitale (CRD IV) che recepisce l'accordo di Basilea III - a comunicare profitti generati, tasse versate e sussidi ricevuti in ogni singolo Paese nei quali queste operano.
Nell'ambito di tali modifiche, una lettera inviata ad aprile da Germania, Francia, Italia, Spagna e Gran Bretagna ai vertici dell'Unione Europea ha accelerato l'introduzione – prevista comunque per il 1° gennaio 2014 – del Foreign Account Tax Compliance Act (FACTA), la normativa statunitense che permette, sulla base di accordi bilaterali, di trasmettere le informazioni su conti correnti e investimenti esteri dei contribuenti americani (o di persone giuridiche non statunitensi ma di sostanziale proprietà americana), alla quale hanno già aderito circa 60 paesi. Tra questi l'Italia, che attende il via libera del ministero dell'Economia per ratificarlo. Dopodiché, bisognerà decidere quali saranno le modalità di registrazione degli intermediari al sistema: una richiesta fatta alle autorità locali o l'ottenimento del codice di identificazione previa registrazione al sito dell'Internal Revenue Service, l'agenzia delle Entrate americana, che nelle scorse settimane ha dovuto prendere atto delle dimissioni dell'ormai ex responsabile Steve Miller in seguito allo scandalo relativo alla campagna elettorale del 2012, quando alcuni dipendenti dell'agenzia sarebbero stati troppo scrupolosi verso gruppi conservatori legati ai Tea Party, tanto da metter in dubbio la reale imparzialità dell'agenzia.
Meno “invasivo” del registro dei rapporti finanziari – l'altro sistema di scambio dati su cui ha dibattuto l'Europa, il quale prevede anche l'accesso a saldi e movimentazioni – l'adozione del Facta ha un vantaggio “federativo” essendo utilizzabile sia come sistema di riferimento intra-europeo che nei rapporti con gli Stati Uniti.
Con Bruxelles, Washington ha peraltro avviato i negoziati per un nuovo ed ampio accordo di libero scambio – che andrà ad aggiungersi ad un volume di scambi pari a 600 miliardi di euro l'anno – con il quale secondo le stime ci sarà una crescita del Pil di oltre mezzo punto percentuale all'anno, l'aumento degli scambi e degli investimenti diretti in settori quali quello energetico, quello delle materie prime e degli appalti pubblici. Un accordo necessario anche per la «riconferma della leadership dell'Unione e degli Usa» secondo Vital Moreira, deputato portoghese di centro sinistra e presidente della commissione al Commercio internazionale. Per l'Europa, la rimozione delle barriere commerciali con Washington potrebbe significare un aumento del Pil di 190 miliardi di euro, anche se molti deputati si dicono scettici sulla reale consistenza numerica del progetto.
Dall'agenzia delle Entrate americana, inoltre, l'Unione Europea potrebbe mutuare anche il sistema da utilizzare per la segnalazione dei dati, riprendendo il cosiddetto “Trace”, acronimo di Treaty Relief and Compliance Enhancement con il quale tentare di definire una strategia comunitaria – e dunque più forte delle varie leggi nazionali - nella lotta all'evasione fiscale. Una necessità non più prorogabile dal momento che proprio un sistema così disequilibrato verso i grandi gruppi multinazionali – che si spostano tra i cavilli delle legislazioni nazionali come meglio credono, come lo “jurisdiction shopping” (o “forum shopping”) di Apple ampiamente dimostra – ha permesso ad alcune di queste corporations, anche attraverso sistemi e strumenti fuori dai canali tradizionali come lo shadow banking system (valore secondo il Financial Stability Board: 67 mila miliardi di dollari, quanto il Pil dell'intero Pianeta), di poter competere con quegli stessi Stati-nazione nel novero delle più forti economie mondiali.
(foto: repubblica.it/micromega-online)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/]