1970 di Tomasz Wolski, Premio Speciale della Giuria al Visions du Réel: l'intervista
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Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, 1970 di Tomasz Wolski: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
Non si vive di solo pane, ma si deve pur sopravvivere: quando nel 1970 il governo polacco di Wladyslaw Gomulka decise di alzare il prezzo di cibi di consumo primario poco prima di Natale, diverse città, tra cui Gdansk e Gdynia, si sollevarono con fierezza, scatenando la brutale repressione delle forze dell’ordine. Il prolifico regista polacco Tomasz Wolski, a mezzo secolo di distanza, durante la lavorazione del film An Ordinary Country, rinviene registrazioni segrete delle conversazioni telefoniche tra i funzionari della squadra di crisi assemblata in quei giorni dal Ministero degli Interni. Vi aggiunge video di archivio, ma soprattutto idea di apporvi, in sottofondo, ricostruzioni in stop motion delle stanze dei bottoni, per dare un volto alla voce fredda del potere. Il materiale di prima mano diventa un documentario storico-spionistico, 1970, e vince, insieme a Les Enfants Terribles di Ahmet Necdet Cupur, il Premio Speciale della Giuria al Visions du Réel 2021.
IL TRAILER DI 1970
PERCHÈ INNAMORARSI DI 1970
Le atmosfere ora fumose, ora agghiacciate, assieme al calibrato lavoro artistico di stop motion dell’animatore Robert Sowa, aggiungono al rigoroso lavoro di archivio di Tomasz Wolski un accento autoriale che fa di 1970 un documentario severo nell’interrogare lo spettatore rispetto alle analogie tra passato e presente, ma anche tirato nel passo vibrante da spy story al telefono, scandita dalla marzialità elettronica del soundtrack. Tale meticolosità nell’uso dei pupazzi si ricorda solo in The Missing Picture (2013) di Rithy Panh, sugli orrori della dittatura di Pol Pot, mentre il complottismo thrilleristico in salsa documentaristica nella cornice del documentario può ricordare Je Vois Rouge (2017) di Bojina Panayotova. In ogni caso: da meditarne i contenuti, da viverne la tensione.
L’INTERVISTA: TOMASZ WOLSKI RACCONTA 1970
ANTONIO MAIORINO: già il titolo, 1970, colloca in una cornice storica ben definita i fatti narrati. Ti chiedo, però, se ci sia anche un aspetto metastorico, un valore di attualità del racconto, a mezzo secolo di distanza dai fatti storici, rispetto ai nostri tempi.
TOMASZ WOLSKI: c’è, e riguarda quanto siamo stupidi; riguarda il modo in cui vengono prese le decisioni politiche. Il pubblico può riscontrare un parallelo tra il 1970 e quanto succede oggi: sfortunatamente, non ci siamo mossi in avanti, neanche in Polonia. Conosco bene questo paese e cosa vi è successo negli ultimi 40 anni. L’anno scorso abbiamo avuto uno sciopero femminile, ma anche prima del governo attuale, c’erano stati scioperi e rivolte. Insomma, non dipende da chi è al potere al momento, bensì dal potere in generale. Puoi cambiarne il nome o il governo, ma il meccanismo resta lo stesso.
A.M: come sei arrivato a capirlo? Deve esserci stato un corto circuito, durante la lavorazione del film, tra il passato e il presente.
T.W: quando ho cominciato a pensare a questo film, il progetto originario riguardava in realtà la sorveglianza e i servizi segreti, ma poi ho trovato queste registrazioni e ne ho parlato sia la produttrice Ania Gawlita, sia con l’animatore Robert Sowa. Mi hanno fatto notare quello che sta succedendo proprio ora in Bielorussia. Ogni volta, la gente va in strada per ragioni diverse: per elezioni illegali, come in quest’ultimo caso; per lottare per il pane, come in 1970; o ancora per le violenze della polizia. Il punto è: come reagisce il potere di fronte a queste violenze? Manda truppe e milizie? Il film è su questo, l’escalation della violenza.
A.M: in ogni ricostruzione documentaria, l’oggettività è un’utopia. A meno che non si tratti di semplici materiali di archivio che un regista si limiti a mostrare, ogni ricostruzione deve trovare un punto di equilibrio, o di voluto squilibrio, tra l’oggettività e l’espressione. Nella tua ricostruzione storica delle proteste del 1970 in Polonia, quali accenti e toni hai scelto per sottolineare implicitamente, con l’espressione formale, aspetti del contenuto?
T.W: è interessante che tu abbia parlato di oggettività; mi chiedo se sia mai stata nella mia mente pensando a questo progetto, e francamente penso di no, perché un film è sempre soggettivo. Anche se lavori con archivi o fatti di cronaca contemporanea, il risultato resta soggettivo. Mentre facevo ricerche per il mio documentario, ne ho visto uno, girato una decina di anni dopo i fatti del 1970, in cui c’erano interviste a testimoni che erano stati presenti durante le proteste. Sentirli è stato terrificante, si capiva quanto fossero aggressivi. Alcuni avevano preso bottiglie di vino, le avevano riempite di benzina e ne avevano fatto delle molotov; sapevano che buttandole tramite le finestre dei palazzi, avrebbero potuto dare fuoco a qualcuno, e aspettavano che fuggissero dalle stanze e uscissero in strada. C’è anche la storia di un ufficiale dell’esercito a cui strappano gli abiti di dosso. Dico questo perché ci tengo a sottolineare che non volevo mostrare la gente comune come eroi e quelli al potere come bestie che uccidevano. La storia, come la vita, non è bianca o nera; il discorso è più complicato. Ecco perché nella prima mezz’ora ho cercato di far sentire lo spettatore insieme agli uomini di potere: anche se non simpatizziamo con loro, empatizziamo, perché cercano di salvare vite. Questa attenzione alle sfumature è indicativa del modo in cui abbiamo lavorato alle registrazioni.
A.M: aggressività, rabbia, violenza: lo si percepisce, ma non ce n’è mostra davvero esplicita nel film.
T.W: bisogna tenere in mente che queste registrazioni che stavo usando in gran percentuale erano state realizzate dai servizi segreti comunisti per ottenere prove. In Polonia ci sono state critiche al film sul fatto non ci sia abbastanza sangue o uccisioni, ma che ci posso fare? Quelli con la macchina da presa certo non potevano filmare prove contro loro stessi o i loro capi, ma contro la gente in strada, quindi non mostravano la violenza contro queste persone. Ci sono riprese che mostrano come gli scioperanti distruggano i negozi, ma se abbiamo anche riprese della polizia che picchia un uomo bianco, è perché è stato ripreso per caso da una finestra.
A.M: dicevi di come, dal ritrovamento delle registrazioni delle telefonate tra i membri dell’unità di crisi del Ministero degli Esteri mentre stavi lavorando a un altro film, An Ordinary Country, sia poi nata l’idea di 1970. Mentre riascoltavi quelle telefonate, avevi la percezione che quelle persone reali stessero diventando personaggi? Intendo dire, queste telefonate erano più o meno espressioni simili di un potere senza volto, oppure ti accorgevi che ogni funzionario aveva le sue sfumature caratteriali, interessanti anche in senso filmico?
T.W: mentre preparavamo i pupazzi per lo stop motion, ci abbiamo pensato a lungo, a come fare in modo che i personaggi fossero diversi. Il viceministro Matejewski, per esempio, è molto calmo, ma anche molto aggressivo. Dovevamo pensare a come mostrare i personaggi, perché ci potevano essere più facce per uno stesso pupazzo. Dovevamo mostrarne a volte il sorriso, altre la rabbia. Abbiamo analizzato le chiamate e cercato di ricavare le personalità. È un esercizio interessante: ascoltare la voce, senza poter vedere i gesti, e provare a immaginare come la voce potesse rispecchiare tratti diversi. A volte è stato un po’ come quando ascolti uno speaker radiofonico, poi lo vedi e ti dici: “ma non è possibile! L’avevo immaginato in tutt’altro modo!”. Abbiamo infatti condotto delle ricerche per capire come quei funzionari fossero fatti fisicamente e trovato registrazioni video in cui c’erano alcune di queste persone. Durante il montaggio la cosa più importante era mostrare le emozioni o la mancanza di emozioni. Hai detto bene di un potere senza volto, ma questo potere aveva delle facce; non importava, però, chi parlasse, quanto di cosa parlassero e di come lo facessero. È cruciale capire come reagissero, perché arrivassero a fare minacce o a insultare quegli stessi connazionali che dovrebbero servire e proteggere.
A.M: quando un documentarista fa delle ricerche per il suo film, immagino che il processo non sia meramente tecnico, come di una fredda investigazione; può succedere che resti sinceramente colpito, dal punto di vista emotivo, da qualcosa che scopre. C’è stata qualche frase, tra le registrazioni che hai sentito, che ti ha lasciato di stucco, impressionato, scioccato?
T.W: (Ci pensa per qualche secondo, n.d.R.) Sto provando a ripensare al mio primo sentimento quando ho ascoltato tutto per la prima volta. La parte più emozionale della mia reazione è quando c’è la domanda: “ci sono cadaveri?”. Non si parla di corpi, ma di cadaveri, e non ci si chiede se i soldati abbiano salvato qualcuno: no, sono interessati ai cadaveri. Avevano paura o volevano spaventare le persone mostrando che erano in grado di uccidere? Non saprei dirlo, ma per me è stato un modo implicito di minacciare. Le persone che dovevano servire la nazione non avevano rispetto per la nazione.
A.M: secondo te, i funzionari intercettati erano consapevoli del fatto che le loro conversazioni erano registrate?
T.W: forse lo sapevano, perché c’erano momenti in cui iniziavano a parlare di cose private, ma si fermavano immediatamente, quindi ho la sensazione che in alcuni momenti cercavano di mantenere il controllo. Ma per me non importa, è peggio ancora: se sei calmo mentre dai l’ordini di sparare alla gente, è peggio di un modo di dirlo in maniera emozionale. All’inizio della tua domanda precedente hai usato un termine molto importante: ascoltare. La mia idea era quella di utilizzare i pupazzi in stop motion perché quando ho sentito le conversazioni, ho subito percepito che erano molto intense e sapevo che lo spettatore doveva sentirle con molta attenzione senza alcuna distrazione. Pertanto, ho fatto in modo che le ascoltassero come se fosse una radio. Non vedi qualcosa nelle immagini che ti porta da un’altra parte: pupazzi statici, in situazioni statiche con poco movimento qua e là.
A.M: qui veniamo a una questione cruciale. Le prossime tre domande sono tutte relative alla tecnica cinematografica. Già, perché quando si parla stop motion, sembra che ci si limiti alla realizzazione dei pupazzi, quando in realtà ci sono molte altre scelte che chiamano in causa la regia. Comincio dalla prima: la fotografia, l’illuminazione. C’è una penombra fantasmatica, con tagli di luce raggelanti. Come hai scelto di illuminare i personaggi?
T.W: ogni stanza nel mondo può essere illuminata e luminosa, ma quando penso alle stanze del potere, volevo che la ripresa fosse più suggestiva in senso filmico e cinematografico. Ho sempre pensato a dei movimenti a partire da una foto: vedi un fotogramma, e scopri che ci puoi andare dentro, intorno, a destra o a sinistra. È un po’ la sensazione del 3D e del 360 gradi che rompe la regola della bidimensionalità della foto. Ho pensato a movimenti lenti e brevi della macchina da presa e cercavo ragioni per creare spunti dinamici. Per esempio: una sigaretta che emana del fumo; le porte che si aprono; una finestra da cui vedere delle ombre, o ancora, se la conversazione è di notte, le luci delle macchine; il sole che entra nella stanza. Non ho fatto altro che pensare a questo tutto il tempo, perché anche se i pupazzi non si muovono, volevo dare la sensazione che tutto quanto vi fosse attorno si muovesse. In sintesi, volevo l’imitazione di qualcosa che fosse vivo anche dentro una situazione statica.
A.M: c’è una sensazione ulteriore rispetto a quella del movimento: quella della tensione. Per 1970 si è parlato persino di un thriller telefonico. Sembra che tu abbia costruita una sorta di suspense con una grammatica visiva ben precisa. In parte hai già risposto, ma ti chiedo: come hai scelto i movimenti della macchina da presa?
T.W: mi dovevo inventare un modo di riprendere tale che in ogni scena ci fosse qualcosa di diverso a livello di luce o movimento. Per fortuna, i collaboratori che hanno progettato le stanze in miniatura lo hanno fatto con molta accortezza, perché hanno creato delle pareti rimovibili, che potevo dunque ridisporre in base alle esigenze di riposizionamento della macchina da presa. Potevo aggiungere qualsiasi posizione ad ognuna delle sei stanze. Ne facevano parte anche due corridoi e un ambiente immaginato appositamente per gli operatori telefonici, quindi al netto le stanze erano tre. Mi sono avvalso di semplici trucchi filmici per far sì che ogni stanza sembrasse diversa: spostare un tavolo o scegliere un tipo di illuminazione differente era sufficiente per dare la sensazione di trovarsi in un ambiente completamente diverso. Ho cercato di raggiungere il massimo effetto di diversità in modo che ogni volta che si vedessero le riprese dei pupazzi, si vedesse qualcosa di nuovo.
A.M: terzo e ultimo punto tecnico: la musica. Sin dalle prime battute, le pulsazioni elettroniche danno s’intonano sia alla vibrazione nervosa del film, sia al clima di depressione industriale della Polonia.
T.W: la musica è venuta fuori molto tardi. Sapevamo che ci sarebbe stata musica, volevo averla. Nei miei film precedenti, tranne An Ordinary Country, non avevo affatto musica, ma qui usavo un altro linguaggio cinematografico e mi servivano strumenti diversi per costruire la tensione e far apparire tutto più terribile di quanto non fosse in realtà. Dovevo accrescere l’impatto emozionale. L’idea sulla musica era di Marcin Lenarczyk, sound designer, musicista e compositore, che è stato invitato in un festival di cinema a Gdynia. A causa della pandemia gli hanno chiesto di suonare un concerto e lui, che è un dj, ha pensato di fare una musica per 1970. Ha invitato Bartlomiej Tycinski e gli ha chiesto di fare una registrazione sperimentale. Marcin ha poi mixato questa musica e ne ha usato una parte, alcune voci e strumenti, ricomponendola sul computer. Ho seguito la sua intuizione perché ero molto curioso e aperto nel lavorare con un musicista: ti porta sempre qualcosa di nuovo a cui non avevi pensato.
A.M: mi puoi fare un esempio concreto di apporto creativo di un musicista al processo di realizzazione di un film?
T.W: senti cosa mi era successo per il film precedente, An Ordinary Country. Stessa situazione: Marcin mi ha detto che c’erano alcune musiche degli anni ’60 già composte e mia prima idea era stata di non usarle, perché volevo rumore di movimento, respiri, della vita, dei passi. Ma ho detto: vediamo, proponi qualcosa e vediamo cosa ne esce fuori. Allora lui mi ha risposto che non voleva usare musica già composta da altri, perché voleva fare qualcosa che sentisse davvero. Gli ho detto sorprendimi, e lo ha fatto: ho sentito la musica e ho detto wow! Tremavo mentre ascoltavo: era una musica intensa, strana, per niente classica. E si abbinava al film. Ma per 1970 ha fatto un passo in avanti: elaborando questo tipo di sonorità, ha fatto anche meglio.
A.M: il tuo film ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Visions du Réel 2021. In ogni intervista recente con un regista di documentari, ho fatto osservare la diffusione dell’espressione cinema del reale, in progressiva sostituzione della distinzione da documentario e finzione. A riprova di questo fenomeno, vien da pensare che a volte i generi siano inclusi nella realtà stessa su cui si appunta il documentarista. Nel tuo caso, per esempio, un documentario basato sulle conversazioni telefoniche intercettate da parte della polizia comunista in Polonia non poteva che virare, che fosse documentario o finzione, verso una sorta di spy story. Era l’unico modo di raccontare la storia? Un tono imposto dalla realtà?
T.W: penso che ci siano molti altri modi di raccontare questa storia, ma che questo fosse l’unico in cui potessi raccontarla io, perché era l’unico che trovassi interessante. Sin dall’inizio della mia carriera ho avuto l’opportunità di lavorare su temi e con persone che mi piacciono, senza dover subire forzature. Ho sempre fatto il mio cinema traducendo il mio modo di vedere la realtà, usando me stesso come filtro del reale. Molti film che ci siano molti altri modi di raccontare questa storia ma che questo fosse l’unico in cui potessi raccontarla perché era l’unico che io trovavo interessante. Ho avuto questa opportunità. Sin dall’inizio devo dire che ho avuto l’opportunità di lavorare con temi, personaggi e persone che mi piacciono, non ho mai subito forzature ed anche quando sono stato assunto per fare qualcosa ho sempre fatto il mio cinema traducendo il mio modo di vedere la realtà, usare me stesso come filtro del reale. Molti film che trattano di storie sono fatti sempre nello stesso modo: mezzibusti televisivi, interviste con persone che potrebbero essere morte o aver preso parte agli eventi ma non averne un ricordo nitido. E allora sei costretto a chiamare attori, fare ricostruzioni, aggiungere la finzione e la voice over: alla fine, diventa teatro. Questa è la ricetta di molti film storici in Polonia, ma io non volevo fare un film così. 1970 non è solo un film sui fatti che dovevo raccontare, da un certo giorno all’altro; noterai che i giorni sono mischiati, perché volevo collegare tre o quattro città. Le emozioni erano più importanti dei fatti. È così che penso quando comincio a lavorare con un film, faccio una sorta di conversazione con me stesso individuando che tipo di film non voglio fare. Ed è un punto di partenza.
A.M: ci avviamo alla chiusura tornando alla questione iniziale, relativa al contenuto di 1970 e alle registrazioni telefoniche. Quali domande, secondo te, rimangono insolute?
T.W: quando ho guardato dalla finestra, ascoltato le notizie, e fatto questo corto circuito tra le cose che succedevano allora e ciò che succede ora, mi è venuta una semplice domanda: perché deve funzionare così? Perché non può essere diverso? Ripensando in particolare a quello che succede nel mio Paese, ho avuto la sensazione che potesse essere un avvertimento. Del tipo: se qualcuno fa un passo di troppo, persone potrebbero essere uccise. Dobbiamo stare attenti, e forse la domanda è: cari politici, farete anche voi qualcosa del genere, un’altra volta? Non avete paura di quello che può succedere a causa delle decisioni che prendete?
A.M: ti confesso che, per come ho formulato la domanda, mi aspettavo mi dessi una risposta relativi ai dubbi che ancora sussistono su quanto accaduto nel 1970, mentre la tua risposta, molto interessante, solleva dubbi di etica, ha a che fare col presente e col futuro, e non con la storia passata.
T.W: fare film storici è interessante se hanno una connessione con quello che succede ora: è un livello superiore del tuo lavoro, e lo devi raggiungere. Quando filmi qualcosa di presente, che hai sotto i tuoi occhi, ti fai tante domande, perché sta succedendo proprio ora e abbiamo già un’overdose di notizie televisive, fatti, fake news che ci confonde. Il presente non ha ancora la forza che invece hanno il passato e la storia. Lavorare per connettere passato e presente può funzionare meglio rispetto al semplice mostrare il presente.
SCHEDA DEL FILM
TITOLO INTERNAZIONALE: 1970
PAESE: Polonia
ANNO: 2021
GENERE: documentario
DURATA: 70'
REGIA: Tomasz Wolski
ANIMAZIONE: Robert Sowa
MONTAGGIO: Tomasz Wolski
SCENEGGIATURA: Tomasz Wolski
MUSICHE: Marcin Lenarczyk
SUONO: Bartłomiej Tyciński, Dj Lenar
PRODUTTRICE: Anna Gawlita
PRODUZIONE: Kijora Film
(l'immagine di copertina è il dettaglio di un fotogramma del film)
Antonio Maiorino