Una voce poetica del nostro tempo: Lina Latelli Nucifero
Societa' Calabria

Una voce poetica del nostro tempo: Lina Latelli Nucifero

lunedì 10 agosto, 2015

Giovanna Villella (critico teatrale e letterario)

Per Lina Latelli Nucifero, poetessa naturale e di grazia, la poesia è parola offerta agli uomini, a Dio, al mondo; è parola che offre invocando un oggetto, celebrando una figura o un evento e, ancora, parola che si offre per se stessa, nella sua nudità, prestando la voce al silenzio. [MORE]

Poesia di vita e di memoria, versi di dolore e di speranza le liriche raccolte in Ali riflesse nel sole (Falco Editore) e nate come esperienza interiore volta a rifondare la vita dell’Autrice e quindi la sua relazione con il mondo.

Lina Latelli Nucifero è donna colta, riservata e schiva, conserva un antico pudore di fanciulla d’altri tempi e un garbo innato che la induce ad abbassare la voce laddove molti alzano i toni. Questo si riflette nel suo lirismo a mezza-tinta. Un lirismo sussurrato ma intenso, profondo che rifugge la “scrittura urlata del dolore”e l’ostentazione di una soggettività offesa per regalarci uno sguardo privilegiato che dal suo cuore di madre ferita si apre al mondo. Sulla scia di un’urgenza dell’anima, il dolore, da intimo canto, si trasforma in voce che si apre agli altri, all’esistenza universale.

La raccolta inizia con una lirica che ha il tono sommesso di una preghiera in cui al movimento ascendente del canto che sale si contrappone il moto discendente di quelle ali che, presenti nel titolo in forma di sineddoche, si substanziano in Angeli discesi in terra a raccogliere quel fiore reciso (la figlia Alida prematuramente scomparsa) e che, nella lirica che dà il nome alla raccolta, saranno invocati a custodirne la “gelida tomba”.

E qui si staglia con pochi, espressionistici, tratti la figura della mater dolorosa che affida alla pienezza semantica di una successione di verbi “Lasciate che il dolore / Dilanii le mie viscere / Strappi il mio cuore / Laceri le mie membra…” l’innocua capacità di ferire il corpo per lenire la sofferenza dell’anima. Ma, nella chiosa finale, quell’invito/invocazione a tutte le madri del mondo “Cullate i vostri figli” si trasforma in transfert emozionale: è il tentativo ultimo di racchiudere in quel piccolo, piccolissimo, naturale gesto materno l’amore e l’istinto di protezione che - proprio di ogni madre – a lei è stato ormai definitivamente negato e che, idealmente, sarà poi ritrovato nel “Suono / Di una dolce ninna nanna…” a conclusione dell’ultima strofa di Un frammento di luce.

Negato – dicevamo - “in un giorno afoso d’agosto” e, nella lirica Aurora perduta, lo scenario dell’anima in ambasce si confonde con lo scenario naturale di un paesaggio marino. Ma i toni hanno i colori melanconici del crepuscolo e il rimpianto per quei piccoli gesti di ordinaria quotidianità ormai perduti: “... Uno sguardo furtivo / Una carezza appena sfiorata / Un bacio rubato tra la porta di casa e l’ascensore…”. All’improvviso quell’universo domestico fatto di “piccole cose” si squarcia, fagocitato da un mondo ignoto che quasi pretende lo stesso sacrificio di biblica memoria.
 
E non possono gli oggetti rimasti colmare il vuoto dell’assenza, anzi, diventano ricettacoli di dolore che si rinnova ad ogni sguardo adduggiante, ad ogni leggero sfiorar di mani: i libri, il lettino ricoperto di raso bianco e quella bambola, balocco femminile per eccellenza, sempre incerta tra immobilità ed espressione, suprema illusione di slancio vitale nella contiguità promiscua tra vita e morte, maschera e volto cristallizzati in un attimo di presente spezzato, quasi stroncato da un evento inatteso che inchioda in un abbrivio senza corso.

Imperiosa si affaccia la paura ne I giorni che verranno, giorni bui, vuoti, riempiti di lacrime e silenzi. Però Domani la natura, pur vestendo i colori malinconici, ma caldi, dell’autunno riuscirà ad esercitare il suo potere consolatorio. Natura “madre e non matrigna” in questa lirica en plein air dall’incipit lento e modulato “Domani il sole scioglierà / A gocce a gocce / la rugiada del mattino / Adagiata / Sui rossi petali della rosa / Sbocciata / L’altro ieri nel giardino”. Ma in medias res la lirica vira improvvisamente mutando tono e ritmo, riponendo in un piccolo laborioso insetto la fame di vita “Ronzandole intorno l’ape / Famelica / Aspirerà il nettare/ Dal suo cuore”.

Ed è proprio intorno a questo unico aggettivo “famelico”che bisogna ricercare la chiave di lettura dell’intera raccolta: la voglia di ritrovare la serenità di vivere pur nella malinconia del ricordo. E per esprimere il suo desiderio di “tornare ad essere”, per ribadire l’affermazione basilare del senso della vita l’A. si rivolge all’acqua: acqua come elemento primordiale dell’origine della vita stessa che nella lirica Ha sete d’acqua, assume tutte le forme: acqua limpida e pura, umidità, rugiada, nuvole, oceano…

Al cospetto dell’acqua purificatrice si avverte il dolore come elemento “corruttore” che l’acqua dovrebbe spazzare via ma il Deserto dell’io è comunque sempre in agguato e con semplicità ed economia d’espressione, l’angoscia lancinante è soppesata e poi librata con totale abbandono, polverizzata e confusa nel turbine del vento. Un canto-pianto che esprime il senso acuto della perdita di sé.

Improvviso ritorna lo smarrimento, il “precipitare nella nullità dell’essere”, l’anima insensibile ai “battiti del mondo”, la disperazione graffiante, il rimpianto e la sordità del cielo alle preghiere che assumono il tono dell’invocazione.
Invocazione ora ardente: “Fa’, o Signore, che il mattino sia più luminoso / E dirada la nebbia che avvolge il mio giorno…”

Ora accorata: “…Misericordioso il mio Dio / Da remote nuvole bianche / Mi tende una mano / Che tento invano di sfiorare / Disperata.” Ora allucinata e quasi avida di annientamento del proprio Io: “… Non si può fingere ogni giorno / Una vita che non c’è / Non si può perseverare / Nell’inganno / Di un respiro inesistente…”

Ora solenne: “… Superbo il Cristo campeggia / Sulle umili case dintorno / Illuminato di giorno /
Dal sole sorgente dall’Est…”.
Nell’architettura della raccolta, il tentativo di spersonalizzarsi dell’Autrice non è l’orgoglioso proiettarsi in una natura frantumata e da ricreare ma il fondersi, il mimetizzarsi con essa per trarne forza vitale:dopo aver vagato tra paesaggi notturni abitati da ombre pesanti come coltri, notti senza stelle e lacrimose lune, uragani, aride dune e abissi profondi ed essere diventata foglia avvizzita al pallido sole d’autunno, la sua anima anchilosata-abbrutita-irretita-imprigionata saprà rinascere dalle ceneri del dolore e rimodulare la metafora del volo come rondine, gabbiano o lucciola.

L’universo cromatico dei versi squarcia la tenebra del lutto per ritrovare l’armonia degli azzurri, la purezza dei bianchi, il rosso del sole, i riflessi argentei del mare. Mentre un odore di tenerezza esala dalle siepi, dai gigli, dalle fresche viole…

È vero sono pause, intermittenze che esprimono il bisogno di riposo di un’anima avviata alla discesa, ma che riesce talvolta a sfuggire al suo tarlo incessante e a ritrovare, in queste fratture, delle liriche nimbate di rarefatta serenità. Così ne Il mio nido di pace, Perdersi sulle ali del vento, Nastri d’argento, Attesa.

Tuttavia, questa complessa contestualità/coesistenza di stati emotivi, psichici e fisici nella poesia di Lina Latelli Nucifero trascende il dato puramente personale per proiettarsi in una dimensione di riconoscimento universale dell’uomo in quanto essere terreno. Ella non vuole liberarsi del suo dolore, vuole solo custodirlo come lo custodiscono gli spiriti eletti, consci del dolore del mondo.

Abbandonati – seppur con andamento discontinuo - gli spazi claustrofobici dell’io lo sguardo si apre al mondo in una dimensione etico-sociale che abbraccia gli altri: siano essi Anime Nere la cui ipocrisia indossa gli abiti eleganti del perbenismo e simula i gesti contriti della pietà e del dolore partecipato, giovani prematuramente scomparsi, kamikaze, emigranti o morti sul lavoro…

Il mondo di ieri e quello di oggi irrompe, prepotente, con i suoi disastri naturali come il terremoto
de L’Aquila e le sue atrocità da non dimenticare: l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, i conflitti in Terra Santa del 2002, la guerra in Iraq, l’eccidio degli Ebrei.

Si rafforza la rara capacità di trasformare concetti “comuni” in essenza poetica: in Ritorna Caino l’A. riprende la metafora del volo in cui “I sacri voli di uccelli / Alla deriva…” diventano lugubri macchine da guerra. Un unico aggettivo, “sacro”, – deprivato della sua solenne inviolabilità e usato in accezione capovolta rafforzata da quella deviante locuzione “alla deriva” - per racchiudere una perversa ideologia di morte che promuove un modello di società incompatibile con i valori dei diritti dell’uomo e con le norme della democrazia.

E quale operazione di sintesi e vividezza di immagine si ritrovano nei versi di Iraq “Al Qaeda, mostro novello / Dai cento occhi / Di vetro/…” Laddove, nel prosieguo: “…Annoda i tentacoli / Del male / Al cuore dei kamikaze / Che esplodono schegge / Di morte / Seminando terrore…” il potere visivo-simbolico della parola dispiega tutta la sua carica evocatrice restituendoci l’effige di questi “folli martiri” che in nome di un Dio barbaro, carichi di esplosivo e avvolti dai fili ritorti dell’odio e dell’intolleranza uccidono gli “infedeli”.

E così in Natale 2002 quell’affresco di presepe appena abbozzato sulla pagina e introdotto dall’inno angelico “Gloria a Dio nell’alto dei cieli…” lieto preludio della pacem in terris, muta repentinamente di tono e di colori trasformandosi in un fosco teatro di guerra dove tutto è morte e distruzione. Ma quell’affettuoso imperativo “… Gesù, non nascere / I buoni devono prima costruire / la pace nel mondo…” trova poi la propria naturale declinazione nella chiosa finale che lascia aperta la speranza “… Bimbi giulivi / Mano nella mano intonano al sole / Un inno d’amore…”

La raccolta è conclusa da La giornata della memoria che in brevi, palpitanti versi, sa raccontare l’evento più funesto patito dall’umanità tutta: la persecuzione nazista degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

In quegli “Occhi scavati nelle ossa / Cariate dall’odio nemico /Braccia penzolanti / Sul corpo scarnito / Gambe stecchite / Come i pali della luce / Conficcati / Nella terra di Polonia…” si ritrova l’Ecce Homo di Jan Komski, artista polacco deportato ad Auschwitz con il primo carico di ebrei.

E nelle parole vibranti, schizzate sulla pagina, prendono corpo le immagini di Tamara Deuel, grande artista lituana sopravvissuta alla Shoah che ha saputo trasferire in forme e colori la sua tragica esperienza di deportata. Come nella pittura della Deuel - fatta di figure “piene ed eteree come ectoplasmi” - l’individuo emerge dai gruppi di deportati per trasmettere uno “sguardo d’Uomo”, così dalla poesia di Lina Latelli Nucifero – intessuta di metafore choc per parlare di identità negate, corpi consumati e vite mutilate – si levano parole pesanti come un monito e leggere come una preghiera affinché quei 6 milioni di morti siano considerati Uomini, Donne e Bambini, ciascuno con la propria storia e la propria identità, ognuno di loro reintegrato nel suo status di “essere umano” e non più “…Ombra viva / Che sanguina o che qualcuno ferisce./ Non più ombra viva oltraggiata / Alle radici / Sputata flagellata inchiodata / Sulla croce come Cristo ammazzato / Sei milioni di volte”.

Sulle tracce di un passato d’orrore, L’Autrice sa tradurre in emozioni ciò che non ha mai conosciuto né vissuto sapendo reinterpretare tutto ciò che ha visto, letto e ascoltato anche durante la sua esperienza di docente. Ma la sua scrittura interroga pure noi lettori sulla responsabilità degli uomini come testimoni della Storia trasmettendo una riflessione sulla indifferenza non solo riguardo alla Shoah ma a tutte le altre tragedie che hanno ferito e continuano a ferire l’umanità.

Si avverte, nella costruzione minimale e condensata del verso, la fatica della lotta contro la follia del singolo, roso dall’invidia e dalla bramosia di potere, e contro la follia della società. Una lotta condotta con le armi della verità (poetica), dell’amore (umano e divino), della libertà e della giustizia perché l’umanità futura possa vivere in un mondo meno invaso da illusioni effimere (voglia di apparire), mera materialità (denaro), dilaganti ipocrisie (potere), discriminazione (razzismo).

La sua poesia, pur partendo da un nucleo intimo e individuale, che riesce a far vibrare le fibre più sensibili di ciascuno, si trasforma, poi, nelle tematiche e nel sentire, in autentica poesia “sociale”lasciando una traccia mnesica per far sì che il vissuto dell’altro possa diventare una piccola, intima parte della nostra vita. Ecco perché Lina Latelli Nucifero si impone come una delle voci più alte e generose del nostro tempo.

Redazione


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