"The Next Three Days", leggi la recensione e scappa
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NAPOLI, 11 APRILE - Nei suoi primi “tre giorni” di programmazione italiana, “The Next Three Days” di Paul Haggis ha incassato ai botteghini italiani poco meno di un milione di euro, balzando rapidamente in testa alle classifiche. Negli Stati Uniti era stato bocciato dalla critica e gli incassi erano stati deludenti. Sugli incassi, ormai nulla da sindacare: carta (moneta) canta. Sulla critica, almeno due parole – posatamente velenose – per riabilitare il “palato fine” degli Italiani. [MORE]
Diciamolo subito: “The Next Three Days” non è deludente soltanto perché ci si aspettava di più da uno sceneggiatore non solo consumato, ma conclamatamente talentuoso come Paul Haggis, con un pedigree che vanta la collaborazione con Eastwood in alcuni dei capolavori maturi (da “Million Dollar Baby” al dittico su Ivo Jima) e la riscrittura del mito di James Bond nel migliore capitolo della saga recente, “Casinò Royale” . Né si è delusi perché altrettanto meritevole erano stata l’opera di Haggis dietro la macchina da presa, dal vincitore degli Oscar “Crash” allo straziante “Nella Valle di Elah”. Aspettative da cinefili che rendono il boccone, anzi, il “polpettone” difficile da inghiottire, ma che non possono turbare la serenità del giudizio sul film preso in sé, di là della carriera pregressa di Haggis.
Qui, però, c’è il busillis. Già, perché “preso di per sé” l’ultima opera di Haggis appare ammiccare smaccatamente alle major ed alle tv, come conferma il buon riscontro dei botteghini del primo weekend – vedremo quelli del secondo, in cui le voci si spargono tra l’utenza cinematografica ed il bene experience diventa bene search, per usare una terminologia cara all’economia dello spettacolo. Allo spettatore non è richiesta la “sospensione della credulità”, ma “l’equilibrismo mortale” della credulità, per sorbirsi senza colpo ferire la vicenda improbabile di un marito così devoto e volitivo (Russell Crowe) da architettare l’inarchitettabile per togliere la moglie accusata di omicidio (giustamente o no?) dal carcere. Entro tre giorni, e con un guru d’eccezione, in seduta per 5 minuti al bar: Liam Neeson nei panni di un ex detenuto dal lusinghiero ruolino di evasioni.
No, non poteva essere un flop. Ancora l’economia dello spettacolo ci insegna che piazzare una superstar nel cast fa levitare le probabilità di successo. E Russell Crowe vale una caterva di biglietti staccati. Se li suda con dignità, fornendo la proverbiale interpretazione solida e senza sbavature, lievemente monocorde ma difficilmente animabile con altro furore. Né Haggis pecca nella manifattura: lo stile delle riprese è senza macchia, il montaggio né tentennato né forsennato mantiene costantemente sulla corda lo spettatore, creando una tensione indubbiamente continuativa.
Eppure non si tratta del punto di forza del film, ma del suo esatto contrario: l’arrovellarsi attorno alla centralità del dubbio “ce la farà o meno?”, risolve la figura del marito fedele in quella del gladiatore per forza d’inerzia, schiaccia i possibili – e millantati, a leggere le interviste di Haggis – risvolti “morali” (legge vs giustizia) nella convulsione della corsa contro il tempo, sminuisce – e a tratti ridicolizza – la credibilità dei passaggi narrativi. Culminando malauguratamente in un finale facilone, perfino mal gestito nei tempi innaturalmente dilatati. Per la serie: le superstar ed il portfolio sono un buon vinavil sulle poltroncine dei cinema, non meno degli inseguimenti spettacolari. Ma non sono fumo negli occhi di chi il cinema lo ama e lo sa guardare.
ANTONIO MAIORINO