SPECIALE CHAPLIN: "Luci della ribalta" accese da 122 anni
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NAPOLI, 15 APRILE - “Il cuore e la mente: che grande enigma!”. Parola di Calvero, nel film “Luci della ribalta”, di Charlie Chaplin. Che enigma.
Che enigma che i poeti scompaiano e le poesie rimangano. E rimangano con una fisicità invadente, che brucia, urtica. Perché ancora sanno parlare, parlano, mentre dei loro creatori non resta, materialmente, che la polvere. L’enigma Chaplin nasceva 122 anni fa (16 aprile 1889) e ancora oggi l’innocua controfigura del vagabondo in bombetta ha i contorni affabulatori del demiurgo, più che del poeta. La sua poesia terragna, umanissima, schietta, scotta come un pezzo di pane caldo nel palmo. Conserva una sublimità che si tocca, ha la semplicità trasversale e penetrante del classico senza tempo. [MORE]
Le Enciclopedie verseranno altri fiumi d’inchiostro, gli spettatori altre lacrime – di ilarità o di commozione. In occasione dell’anniversario della sua nascita, vale la pena parlare di Chaplin con un’immersione – viva – nel suo cinema, tralasciando il patetismo da “orazione funebre”.
Si può spiegare un artista con 5 minuti di un suo film? Affatto. Ma nemmeno con l’intera filmografia (memento: “il cuore e la mente: che grande enigma!”). Ma si può provare ad avvertire la poesia che brucia in ogni frame, senza dissertazioni scolastiche e senza voli pindarici. 5 minuti di “Luci della Ribalta” (Limelight, 1952), un articolo. L’enigma della poesia.
Siamo in un teatro, l’anziano Calvero si è appena esibito. Gli applausi fanno bene, ma hanno un retrogusto amarognolo. Quanti ricordi. Calvero: un tempo famoso ed acclamato clown. Poi il declino, l’alcol. Poi, ancora, la vita: salvata ad una suicida, la giovane ballerina Terry (Claire Bloom), disperata poichè costretta a prostituirsi. E Terry ricambia, restituendo la vita a Calvero: lui le fa da mentore e riprende coscienza delle proprie possibilità, lei trova il successo e s’innamora del clown. No, Terry; potrebbe essere tuo padre. Calvero lo sa, e cerca di convincerla che il giovane pianista Neville (Sidney Chaplin) è l’uomo giusto per lei. E sparisce dalla scena: lascia Terry, il suo teatro è la strada. Ma la stessa Terry, che ha ora uno show tutto suo, gli offre un’apparizione. Calvero accetta, con la spalla dei tempi d’oro (indimenticabile Buster Keaton).
Siamo di nuovo al teatro. Applausi, ancora. Calvero e la sua spalla hanno entusiasmato il pubblico. Panoramica fino al sipario, che si apre: ecco Calvero. Che ci fa in un tamburo? Ci è caduto – era la sua gag! Il pubblico non sa che ha avuto un attacco di cuore.
Il pubblico applaude, ancora. Calvero è in camerino col dottore. Qui c’è uno dei massimi passaggi del cinema del XX secolo. La notizia che il clown è spacciato è decentrata nel biascichio atono del dottore, mentre si assilenta l’eco degli applausi. Lo spettacolo è finito, ora Calvero è un uomo. E parla, con Terry: lui, il mentore; lui, che ha ridato la vita a Terry, che ha ridato l’arte a Terry. Ed è la stessa cosa: perché l’arte e la vita coincidono, la loro linfa è l’amore.
Terry è truccata, Calvero si è struccato. “Noi gireremo il mondo, ho delle idee” – dice Calvero. La poesia di questa scena è tutta nell’uomo che muore, e nell’idea che vive: e vive di carne, perché Terry incarna l’arte con la propria carica passionale, col proprio brivido fluente. Sta per sparire un artista, ma resta l’arte. E non come “concetto”: come corpo che si muove, come “Terry”. Questo non è un testamento spirituale di Chaplin: questo è Chaplin.
Terry è chiamata in teatro. “La mia ora è vicina”, dice Calvero, “ma poi non so: sono morto tante volte”. Poche parole ed il viso affaticato, solcato da rughe, condensano il pathos della coesistenza della caducità e dell’immortalità, della fatalità e della volontà strenua, dell’amore che alimenta l’arte e del suo nutrimento complementare, l’infelicità. Ed è ancora carne, signori: è Calvero.
Un ultimo desiderio, il clown morente vorrebbe vedere Terry esibirsi: “fatemela vedere”. E segue uno degli apici dell’opera di Chaplin. Calvero ha bisogno di vedere, ha bisogno dell’immagine: ma anche Chaplin ha lo stesso bisogno, perché il cinema vive di immagini. Nel frattempo la colonna sonora guadagna intensità, Calvero chiude gli occhi: ora l’arte parla ancora, ma con la musica (composta da Chaplin, premio Oscar retroattivo nel 1972), mentre le palpebre di Calvero calano il sipario dello sguardo. L’impresario e la troupe lo portano presso il palco, da dove potrebbe vedere Terry. Potrebbe, se fosse ancora vivo: solo ora gli operatori si accorgono che è morto. Non ci sono parole: c’è solo la musica, come in un film muto. Il cinema si è evoluto, ha cambiato forma, ma continua ad esistere: così come l’arte non ha più il corpo di Calvero, ma la sua forma (le sue “idee”: dal greco “eidos” = forma). Omaggio a sé stesso, come prima a Buster Keaton; omaggio al cinema; omaggio all’arte, alla passione ed alle idee che sopravvivono.
Ah, sopravvivono? Si: perché mentre adagiano un lenzuolo a coprire il corpo inerte di Calvero (sembra un sipario), il campo si allarga e dai drappeggi del sipario – quello vero – si vede Terry che danza: ora l’arte è il balletto, ma è anche la musica, è anche l’immagine cinematografica della ballerina, è il corpo fisico in movimento sul palco. Questo è il manifesto della poesia come meglio non si poteva scrivere: fatta di carne e di tutto quanto attenga alla percezione dell’uomo, dall’udito, alla vista, al tatto. È l’opera d’arte totale, la vita: qui davvero Chaplin entra nella civiltà artistica dal teatro greco a Wagner. La vita non muore, anche nella morte.
“Luci della ribalta” è, a un tempo, la mitologia del cinema (con la reinvenzione dei cliché del musical e l’omaggio al muto), la mitologia di Chaplin (artista che si reinventa e le cui idee non muoiono), la mitologia dell’arte (la ricerca della bellezza, forma di amore che sostanzia il desiderio di vivere). Ancora, chi scrive, redattore in carne ed ossa, non può fare a meno di piangere per l’ennesima volta.
122 anni senza morire. Auguri, enigma Chaplin.
ANTONIO MAIORINO