Smetto quando voglio, intervista a Sydney Sibilia: "La mia Hollywood all'amatriciana"
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Da qualche tempo, al cinema, il ritmo è quello di una commedia italiana in uscita a settimana, con risultati più o meno felici nello sgomitare tra colossi di vario tipo: furbi remake come Carrie o Robocop, luminose incursioni di star come Clooney con Monuments men, aspiranti protagonisti alla notte degli Oscar come The Wolf of Wall Street o A proposito di Davis. All'italianissimo, tragicomicamente italiano Smetto quando voglio, riesce di non farsi schiacciare: l'originalità è una corazza robusta. Il cavaliere è il salernitano Sydney Sibilia, regista esordiente ma dalle idee chiare. Gli abbiamo tastato il polso sul concepimento e sul successo della sua opera prima.[MORE]
ANTONIO MAIORINO: Smetto quando voglio ha ottenuto un risultato ambito da molti registi: il “consenso incrociato”, ossia, l’apprezzamento della critica ed i buoni riscontri al botteghino. Sei un esordiente, per cui mi piace partire sondando l’aspetto “emotivo”: ti aspettavi questo successo, tanto più che hai superato calibri come Robocop di Josè Padilha o l’osannato A proposito di Davis dei fratelli Coen?
SYDNEY SIBILIA: No, e come non me l’aspettavo io, non se l’aspettava nessuno. Non immaginavamo che scoppiasse questa bolla mediatica, che arrivassero tutti questi consensi. Noi avevamo fatto un film piccolo piccolo, e invece ci siamo ritrovati una roba così grande che fa piacere, in qualche modo: siamo contenti tutti. Poi, battere i fratelli Coen è una cosa prestigiosa: loro hanno tipo sette Oscar, io la maturità scientifica… questa cosa mi fa sorridere! Però è una soddisfazione.
A.M: Un bell’esordio, dunque. Prima, però, una gestazione che nasce da un’idea: per l’esattezza, da un articolo di giornale…
S.S: C’era un periodo tumultuoso nelle università e uscivano questi articoli sui tagli alla ricerca, sui precari dell’università… e poi, un articolo illuminante che parlava di due netturbini laureati in filosofia, con tanto di master, che lavoravano per l’AMA, la società che pulisce le strade a Roma. L’immagine di una Roma all’alba con due netturbini che parlano della Critica della Ragion Pura ci faceva ridere, anche se ne coglievamo il lato tragico. Meglio: tragicomico. Siamo andati ad approfondire, a reperire tutte le storie di ricercatori. Ce n’erano tantissime, la ricerca non è stata nemmeno difficile: erano lì davanti agli occhi. Abbiamo dovuto fare, anzi, una vera e propria selezione, perché alcune storie erano troppo surreali per poter essere inserite persino in un film come Smetto quando voglio. Alcune erano incredibili: la vera assurdità è nella realtà. Abbiamo poi cominciato a scrivere, a ragionarci, soprattutto a divertirci: non ci siamo mai presi sul serio, neanche per un secondo. Il vero merito di questo film consiste nel fatto che ci siamo divertiti a girarlo e la cosa si percepisce.
A.M: Hai giustamente indicato l’aspetto “tragicomico” di certe situazioni italiane, ma anche il genuino divertimento che ha accompagnato la realizzazione del film. Vien da avanzare una riflessione sulla commedia italiana, che spesso si trova in una pericolosa morsa: da un lato, se punta alla leggerezza ed al divertimento, una pellicola rischia di essere stroncata per troppa frivolezza; dall’altro, se alza l’asticella, come fa Smetto quando voglio lambendo temi d’una certa rilevanza quali precariato e legalità, il rischio diventa invece quello di banalizzare. In altre parole, sarà stato in qualche modo inevitabile, per te, “maneggiare con cura” temi così delicati in un contesto comico. Come ti sei regolato?
S.S: Abbiamo anteposto il divertimento a tutto questo, ma devo dire che comunque la commedia italiana si basava su una premessa tragica, come I soliti ignoti, sempre sullo sfondo di una satira sociale. I periodi storici come questo, un po’ drammatici, sono molto fertili per chi fa il mio lavoro, perché sono pieni di storie. Con una lente davanti, riesci ad estrapolare le cose più tragicamente divertenti. I soliti ignoti avevano fame e rapinavano un monte dei pegni. Non bisogna comunque mai pensare di fare la morale, di cercare di spiegare o d’insegnare o di dire qualcosa a qualcuno: la nostra era voglia di far divertire la gente, poi la satira sociale c’interessava in maniera minore, tenendo comunque conto del fatto che la risata è la cosa più potente che c’è. Quando intellettualizzi troppo film come questi, si sgonfiano. Perché intellettualizzare? Il cinema non deve perdere la propria funzione principale, l’intrattenimento. Una persona vuole essere intrattenuta per un’ora e mezzo, perciò va al cinema.
A.M: Divertire, comunque, è un’arte. I prodotti divertenti restano complessi. Smetto quando voglio, tra l’altro, manifesta una cura particolare dell’aspetto visivo: messa in scena e fotografia puntano su scelte decise che palesano una certa identità, con colori fluo, molto caricati.
S.S: Il colpo d’occhio d’un film è fondamentale: volevo creare un impatto forte già dalle prime immagini, già dal trailer. Ormai, peraltro, si gira tutto in digitale, non si parla più di pellicole: questo tende un po’ ad appiattire tutto, ma noi abbiamo fatto di questa gabbia una vera e propria risorsa, sfruttando alcuni lussi che fino a qualche anno fa non ci si poteva permettere. Abbiamo cercato di fare un lavoro sulle doppie dominanti, che quando avevo cominciato a svolgere il mio mestiere erano considerate un errore, mentre noi abbiamo tentato di farne un punto di forza. Questa è forse un po’ l’era di Instagram: siamo abituati a vedere delle immagini filtrate, non naturali, con dei mega-filtroni. Con Vladan Radovic alla fotografia ci siamo divertiti ad assumere i riferimenti più originali: un certo tipo di fotografia anglosassone particolarmente esasperata, e da lì siamo partiti.
A.M: A proposito di riferimenti anglosassoni: hai parlato prima di commedia all’italiana e de I soliti ignoti, ma Smetto quando voglio guarda molto ad Hollywood. Non si tratta di una scelta scontata per prodotti nostrani di questo tipo, ma è evidente come nel tuo caso si tratti di una scelta oculata, attenta sia al seriale e al televisivo che al grande schermo. Cosa ti ha ispirato oltreoceano?
S.S: Prima di essere uno che fa cinema, sono un avido consumatore: guardo tantissime cose, da quelle vecchissime, a certi film assurdi, fino a prodotti di massa. Mi piaceva compiere un’operazione parodistica, i protagonisti del film se lo dicono spesso: “ma questa cosa è americana”, “il sistema è americano”… C’è un continuo rimandare ad un immaginario collettivo che secondo me fa ridere per il fatto che, trasportato in Italia, diventa in qualche modo all’amatriciana. Dalle serie tv, fino a film come Ocean’s Eleven: loro avevano George Clooney e Brad Pitt, noi Edoardo Leo e Stefano Fresi! È un’idea potente, è bello da vedere. La sequenza della banda è un omaggio a questi film, che sono poi quelli con cui mi sono formato: non ho seguito scuole di cinema particolari, ho sempre guardato i film e cercato l’emulazione.
Qui la recensione di Smetto quando voglio
(in foto: Sydney Sibilia, con felpa gialla, sul set di Smetto quando voglio)
(si ringraziano Giosuè Vittorioso, Rino Talente ed Anna Rita Peritore)
Antonio Maiorino
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